Vanessa Tagliabue onora Édith Piaf al Teatro Splendor

Una Piaf di rosso vestita emoziona lo Splendor portando in scena i grandi classici della mitica Mome parigina con un'ironia sottile e spensierata.
Vanessa Tagliabue Yorke
Cultura

“Il francese a casa mia era la lingua vietata: mia madre e mia nonna lo parlavano quando volevano che non capissi”. Vanessa Tagliabue Yorke esordisce così al Teatro Splendor di Aosta per portare in scena l’intramontabile Édith Piaf. Potrebbe sembrare un controsenso, il suo francese stentato e condito da alcuni errori di pronuncia sembrerebbe non essere in linea con lo spettacolo che porta in scena.

Eppure, quando inizia la melodia e i testi della Môme Piaf prendono vita grazie all’incantevole voce della Tagliabue, tutto svanisce. Non esiste più l’insicurezza della barriera linguistica, scompare l’incertezza e i capolavori della cantante francese si attualizzano e concretizzano. Ha ragione la Tagliabue: “Non so bene il francese, non posso parlarlo o capirlo perfettamente, ma questo non mi impedisce di cantarlo”. In questa frase, in qualche modo, è racchiuso anche il senso del patrimonio inestimabile della francofonia e del nostro bilinguismo, che, seppur “di facciata”, come spesso si sente dire, permette ai più di godersi lo spettacolo.

E che spettacolo. Vanessa Tagliabue Yorke inizia un po’ frenata, ma il climax tipico delle canzoni del passerotto Piaf sale come cresce di intensità e struttura la interprete italiana, che inanella un capolavoro dietro l’altro, intervallando la musica a piccoli interventi in italiano e francese e liberando piano piano una comicità del tutto naturale che contrasta tanto, ma mai troppo, con la serata. A prima vista nulla di lei assomiglia a Édith: il suo vestito rosso è agli antipodi dei severi completi (per lo più) neri della celeberrima parigina, la sua personalità a tratti da “Alice nel paese delle meraviglie” sembrerebbe estranea al personaggio Piaf, spesso troppo ripiegato in un universo fatto di sofferenze e dolori amorosi, ma nulla stona in questa serata così particolare. Le mani della Tagliabue fendono l’aria e si posano sui suoi fianchi e sul suo volto, esattamente come era solita fare la Piaf durante i suoi mitici concerti.

Sul palcoscenico solo un pianoforte, un clarinetto e la voce. Nessuna luce particolare, ma quella bianca, normale, fissa. A che servono gli stratagemmi quando la qualità c’è e risiede nei musicisti, Paolo Birro al pianoforte e Guido Bombardieri al clarinetto e clarinetto basso, e in una voce capace di onorare una inarrivabile della canzone non solo francese, ma internazionale.

Ampio spazio specialmente a chi ha saputo creare i testi magici cantati dalla Piaf, in particolare Georges Moustaki e Marguerite Monnot. Quest’ultima molto vicina a Edith, non solo lavorativamente parlando, ma anche umanamente, soprattutto dopo la perdita di Marcel Cerdan, il grande amore della (anti) diva francese.

Per ricordare la chansonnière francese alcuni dei suoi brani più famosi come “La vie en rose”, “Non je ne regrette rien” e “Milord”, ma anche delle piccole gemme come “Le gitan et la fille” o “Demain il fera jour”.

E infine, la Tagliabue si concede davvero al pubblico, come aveva promesso all’inizio citando la Piaf e dicendo che il pubblico è suo amico: “Questo concerto lo dedico a mia nonna. Una nonna veneta che, a 3 anni, a causa della guerra, dovette fuggire in Francia e lì rimase ed è allora che smise di farsi capire da me”.

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