La strada per Teheran: un valdostano in Iran, nei giorni delle bombe

È veneto, Mirko Veneri, ingegnere meccanico. Ma da anni la sua casa è la Valle d’Aosta. Il suo racconto è quello di un italiano che si trovava in Iran, per lavoro, proprio nel momento in cui le bombe israeliane hanno colpito. Lontano, a Shiraz. Ma la strada per tornare a casa portava a Teheran.
Mirko Veneri - Iran
Società

“No, non ho avuto nessuna paura. Ma tanta preoccupazione, quella ”. È veneto, Mirko Veneri, ingegnere meccanico classe 1980. È veneto ma da 17 anni la sua casa è la Valle d’Aosta. È veneto, la sua casa da tempo è la Valle d’Aosta ma il suo racconto è quello di un italiano che si trovava in Iran proprio nel momento in cui le bombe israeliane hanno colpito.

“Vengo da 18 anni passati nella siderurgia – spiega –, e ho lavorato alla Cogne acciai speciali fino al 2015. Oggi faccio il consulente per il mondo siderurgico, quindi mi occupo del supporto sia qualitativo sia tecnico, e ho iniziato a collaborare con un’azienda che fa consulenza per l’avviamento di impianti e per il rinnovamento delle apparecchiature, oltre alla formazione dei lavoratori”.

Oggi, è uno dei soci fondatori dello Studio Saldeng, che si occupa proprio di tutto questo. O meglio, si occupa di consulenze ingegneristiche nell’ambito delle strutture metalliche e carpenteria meccanica, con particolare focus sulle tematiche della saldatura e della gestione-coordinamento delle normative qualitative e tecniche. A tutto ciò, venendo dal siderurgico, Veneri ha aggiunto la parte di consulenza tecnico/gestionale. Non poco, insomma.

Una nuova avventura, quindi, in un mondo che conosce bene. E la prima opportunità è già qui, pronta: “La mia prima occasione, definiamola così, è stata in Iran – racconta –. Ho fatto una prima visita nello stabilimento in cui avrei dovuto lavorare per capire se si potesse portare avanti il progetto. Eravamo tra fine maggio e l’inizio di giugno. Sono piaciuto per l’aspetto della consulenza, e anche all’azienda cliente che si trova nel sud dell’Iran. Così, mi è stato proposto di portare avanti questo progetto di rinnovamento dello stabilimento”.

L’arrivo a Shiraz

L’azienda, dice Veneri, si trova a Shiraz, nel sud del paese, a poco più di 800 km in auto da Teheran. La partenza è già fissata sull’agenda: giovedì 12 giugno. Un bus da Aosta, l’arrivo all’aeroporto di Bergamo, il volo con scalo a Istanbul. Destinazione: l’aeroporto internazionale di Shiraz.

Senza sapere, come molti, che anche l’attacco israeliano in Iran aveva una data ben segnata nell’agenda, sebbene in quella di poche persone: 13 giugno, ore 2 del mattino: “In volo non c’erano notizie di nessun tipo, l’aereo era pieno di iraniani che stavano tronando a casa – racconta ancora Mirko –. È stato un viaggio molto tranquillo, con persone molto socievoli. Di fatto, sono arrivato quella notte con l’ultimo volo da Istanbul a Shiraz prima che chiudessero lo spazio aereo. Solo che non lo sapevamo”.

Lì, tutto tace. O quasi: “Ho trovato una città, Shiraz, estremamente moderna e molto aperta ai gusti e alle abitudini occidentali. Anche perché era la città più vicina allo scià di Persia (Reza Pahlevi, che ha regnato in Iran fino alla deposizione del 1979, durante la Rivoluzione islamica guidata da Khomeynī, ndr.)”.

Poi, l’arrivo allo stabilimento, ad un’ora dalla città: “Sono arrivato alle 6 del mattino e ho cominciato a ricevere una serie di messaggi da parte di colleghi nei quali mi si chiedeva se stessi bene o meno. Non capivo a cosa si riferissero, il wi-fi non prendeva. Poi, nella guest house ho cominciato a leggere le notizie e le mail e ho realizzato. E che si fa? Sei lì, lo spazio aereo è bloccato. Mi sono riposato un po’ e sono andato allo stabilimento per vedere cosa si dicesse, cosa si potesse fare e per capire la situazione. Mi hanno detto che erano state attaccate delle basi nucleari, mentre noi eravamo nel deserto. E che il rischio più vicino, volendo, era un power plant ad un’ora da noi, ma che non aveva niente a che vedere con il nucleare”.

Quindi? “Ho parlato con dei colleghi, mi hanno spiegato che la possibilità di un attacco di Israele c’era, anche se molto remoto – prosegue Veneri –. Allora ho contattato l’ambasciata italiana. E la risposta mi ha subito lasciato un po’ basito. Capito dove mi trovavo, mi è stato detto: Sei in nel posto più tranquillo possibile, non ti preoccupare. Al momento non sappiamo nulla, vediamo come si evolverà. Io sono rimasto di stucco, ma la situazione lì era assolutamente tranquilla e tutte le figure apicali e anche gli operatori dello stabilimento erano sereni. Vuoi, anche per una sorta di forma mentis loro, visto che sanno di vivere in Stato molto particolare dati i rapporti con i ‘vicini’”.

“In una situazione del genere, ho capito che chi abita in Iran sa di vivere in paese non stabile da quel punto di vista, anzi estremamente critico perché basta la minima parola per scatenare un putiferio tra paesi vicini e lontani, viste anche le enormi risorse naturali che ha l’Iran: petrolio, gas, coltivazioni, campi sterminati. L’instabilità si sente, ma essendo talmente abituata la popolazione la maschera molto bene. Poi a Shiraz, dall’altra parte del Paese rispetto a Teheran, si sente un po’ meno l’impatto delle decisioni, sia religiose sia politiche, del governo e delle sue figure di spicco”.

Lasciare l’Iran

La decisione però è presa: meglio lasciare il Paese e tornare a casa. Più facile a dirsi che a farsi: “Ho chiesto all’ambasciata italiana di tenermi informato, perché ero preoccupato – prosegue Veneri –. Da mercoledì era stato chiuso l’accesso ad internet, ero preoccupato di non poter parlare alla mia famiglia, chiedevo all’ambasciata di poter comunicare. Loro hanno tenuto informata mia moglie sui miei spostamenti. Io volevo solo uscirne il prima possibile e la stessa azienda iraniana si è mossa in maniera impeccabile: mi hanno sempre messo a mio agio, mi hanno aiutato a gestire contatti con l’ambasciata”.

La difficoltà, però, è stata un’altra: “Anzitutto, non era un’evacuazione ma un rimpatrio. E non c’era nessun obbligo di lasciare il paese – prosegue l’ingegnere –. Dall’ambasciata mi hanno detto: Lei venga a Teheran, da noi, e organizziamo il viaggio al confine tra Iran e Azerbaigian, così da Baku (la capitale azera, ndr.) può tornare in Italia. In quell’istante ho sentito un brivido lungo la schiena: io sono lontanissimo da Teheran, in una regione totalmente fuori dai pericoli dei bombardamenti e sarei dovuto andare proprio a Teheran dove stanno bombardando? Allora, ho chiesto all’ambasciata di venirmi a prendere e la risposta è stata: non possiamo mandare un’auto fino a Shiraz, si deve organizzare da solo”.

E Teheran sia

Alla fine, la scelta è una: Teheran sia. “Ho chiamato il responsabile dell’azienda e gli ho parlato di questa proposta – prosegue il racconto –. Mi hanno detto che per andare a Teheran l’unico rischio avrebbe potuto essere quello dei posti di blocco. Mi ha detto anche detto, però, che l’avrebbero organizzato loro con un autista, e mi hanno dato il massimo supporto. Sia l’azienda iraniana, sia la società di ingegneria che mi ha mandato in là. Si sono comportati tutti in maniera meravigliosa. Mi hanno affiancato un iraniano che parla sia inglese sia farsi, con tutte le carte per spiegare la mia presenza lì. E, nel caso fossi preoccupato dal viaggio da Teheran a Baku, mi avrebbero anche portato lì. Sarebbero stati disponibili ad accompagnarmi per 14 ore, oltre alle 14 di viaggio a Teheran”.

Le bombe su Teheran

La cosa più incredibile del racconto di Veneri è Teheran stessa. Durante i bombardamenti. Che l’ingegnere valdostano di adozione non ha visto de visu, ma che ha sentito chiari e tondi: “A Teheran li ho sentiti, ma arrivando di notte non visto nulla – dice –. Contiamo la distanza: è come se io fossi nella zona del Beauregard e stessero colpendo a Gressan. Ho visto poi le foto di palazzi colpiti, magari con un angolo totalmente distrutto e del quale si vedeva la struttura interna, mentre dall’altra parte dell’edificio la gente che ci viveva dentro e ci lavorava tranquillamente. Questo perché sapevano che lì c’era qualcuno legato al governo, e che una volta eliminato erano sereni”.

Non solo: “Sono arrivato a Teheran tra giovedì e venerdì scorsi per andare all’ambasciata – sempre Veneri –. Pensavo che la città fosse in crisi, con le persone preoccupate. Ho trovato, invece, una situazione completamente diversa: sono entrato a Teheran e mezzanotte meno un quarto. Tutti i locali erano aperti, c’era musica per le strade, gente che mangiava e beveva, baracchini di carne grigliata, frutta e verdura, persone che passeggiavano, auto e motorini che giravano tranquillamente”.

E ancora: “È vero che, per loro, il nostro sabato sera è il giovedì. Però mi sono trovato di fronte ad una realtà che non mi sarei aspettato. Pensavo ad una città preoccupata, comunque sotto un bombardamento, e ho trovato una grande metropoli che viveva un sabato sera’. Ho chiesto all’ambasciata se fosse una mia impressione, invece mi è stato detto che lì i cittadini conoscono perfettamente la situazione in cui si muovono. Sanno anche che Israele colpisce specifiche parti: palazzi definiti e centrali nucleari. Una cosa tipo: Signori, tutti tranquilli perché bombardano là, solamente quel palazzo in cui abita qualcuno che è supportato dai terroristi o li supporta”.

La strada verso Baku, poi verso casa

Mirko ricostruisce i suoi spostamenti: “Siamo partiti 11.30 da Shiraz, siamo arrivati alle 1.30 di notte all’ambasciata italiana a Teheran – dice ancora –. Ho dormito nella palestra dell’ambasciata, con persone molto gentili e disponibili, con i carabinieri che sono stati molto rassicuranti, persone veramente valide e ci hanno supportato in tutti i modi. Hanno poi organizzato trasferimento nel modo più indolore possibile, anche se al confine con l’Azerbaigian siamo arrivati alle 16.30 partendo alle 7.30”.

“Da lì ci hanno prelevato dal pullman dell’ambasciata italiana e portati a Baku – prosegue nel racconto –. Qui ci si doveva arrangiare per pagare l’albergo e per tornare in Italia. Il problema non sono state le persone, quanto degli iter burocratici fin troppo complessi, in una condizione, comunque, di emergenza. Eravamo 26 persone, la maggior parte italiane e alcuni italo-iraniani. C’è stato bel clima, abbiamo cercato di supportarci l’un l’altro ed i carabinieri che ci hanno accompagnati sono stati di supporto e di conforto. Il problema è stato che da Baku, gli unici voli con valigie al seguito passano da Teheran. La mattina dopo, ho preso il taxi per andare dall’albergo all’aeroporto e sono rimasto a bocca aperta dalla bellezza di Baku. Molto moderna, pulita, ma profondamente legata al suo passato”.

Un domani, in Iran

La bellezza di Baku ricorda a Mirko ciò che ha visto in Iran. Un paese di una bellezza intensa, diversa. Penetrante. Un posto in cui tornare? “Sono rimasto affascinato dall’Iran, dal Paese e dalla sua cultura – ci racconta ancora –. La prima proposta che mi è stata fatta dai responsabili dell’azienda era stata quella di passare lì due settimane di vacanza una volta che tutto sarà tranquillo. A pensarci, ero a 80 chilometri circa da Persepoli, un sito che vorrei visitare. Però, facciamo che ci andiamo in un altro momento. Tornerei, mi piacerebbe molto. Mi auguro di farlo, ma non so quando”.

“Ho una moglie e un figlio piccolo – aggiunge –. Tornerò solo quando sarò certo che non ci sia nessun rischio. Potrò tornare e dire ancora ciò che penso già ora: che l’Iran è un Paese meraviglioso e molto, molto, accogliente. È un paese con determinate regole da conoscere e da rispettare. In viaggio ho incontrato diversi italiani che hanno scelto di vivere a Teheran perché si sono innamorati della sua cultura e di quel modo di vivere. Anche se, va detto, la birretta con gli amici alla quale siamo abituati, lì è molto, molto, complicata”.

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