“Le leggi che ci riguardano debbono essere scritte con noi”
Ho assistito in queste ultime settimane ad una “gazzarra“ suscitata dall’approvazione in consiglio regionale della legge che istituisce il garante dei diritti delle persone con disabilità. I protagonisti di questo gran vociare, ho appurato, erano tutti “abili“ o, se preferite, “normodotati”. Così mi sono deciso a raccontare la mia storia di disabile.
I prodromi della mia disabilità hanno cominciato a manifestarsi verso i 10 anni e, contemporaneamente, ho cominciato a vergognarmene, anche grazie alla sensibilità di un insegnante che dileggiava le mie difficoltà, sollevando l’inevitabile ilarità dei miei compagni. Alla scuola media me la sono cavata solo perché ho scelto di starmene da solo in un banchetto tutto mio accanto alla cattedra.
Al liceo la situazione è ulteriormente peggiorata. Solo grazie ad un’illuminante intuizione di una mia insegnante, dopo i primi due anni, operando al di là della legislazione vigente, la situazione è progressivamente migliorata, in seguito alla concessione di un assistente personale, assistente che si è reso necessario anche nel corso degli esami di maturità.
Dell’università ho un ricordo piuttosto triste; nell’impossibilità di frequentare, non sono mai riuscito ad inserirmi pienamente nel mondo accademico. Dalle pratiche per l’iscrizione, ai calendari delle lezioni, alle date degli appelli era tutto un chiedere intorno a me un aiuto.
A manifestare il disagio connesso alla mia disabilità, che comportava anche difficoltà nello studio, nemmeno a parlarne: temevo di essere cacciato dall’università.
Con la caparbietà della disperazione, mi sono comunque laureato, e a pieni voti ed è arrivato il momento di produrre, concorrere al bene della collettività di cui, nonostante tutto, mi sentivo parte, e parte attiva.
Al concorso per assicurarmi un posto di lavoro ho dovuto fare, ancora una volta, tutto da solo. Senza supporti, senza rispetto delle mie difficoltà. I primi anni di lavoro sono stati veramente un calvario, poi, finalmente, la tecnologia mi è venuta in soccorso: sono rinato.
Un pensiero, anzi un assillo, mi ha accompagnato in ogni momento: per evitare che gli altri mi considerassero diverso, inferiore, ho sempre fatto più di quanto mi venisse richiesto.
Oggi che sono, come si dice, in quiescenza, ripenso con orgoglio a tutti quegli anni di fatica e di risultati per me, e non solo, straordinari. Ma quanta pena.
In questi ultimi decenni la situazione dei disabili è certamente migliorata; sono state emanate leggi, regolamenti, e, sopra ogni altra cosa, la convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, che ci ha finalmente restituito cittadinanza e dignità.
Ora, di quella convenzione tutti, o quasi, si riempiono la bocca citandone, anzi, conoscendone, solo la rubrica. Dei contenuti, la stragrande maggioranza di loro, non ha che una pallida idea.
Quella convenzione tutela i diritti, quelli già acquisiti, almeno formalmente, e, soprattutto, quelli a venire. Ma, prima di ogni altra cosa, quella convenzione tutela le persone.
E allora io, disabile, vorrei sentirmi tutelato nel presente e garantito per il futuro. Così vorrei che, d’ora in poi, nulla si facesse per noi senza di noi.
Le leggi che ci riguardano debbono essere scritte con noi, non ci basta più essere chiamati in audizione per proporre osservazioni che poi rimangono inascoltate, la progettazione di qualunque edificio deve essere universale, consentirne cioè l’accesso a chiunque, specie ai disabili.
Non pretendiamo la luna, anzi, apprezziamo gli accomodamenti ragionevoli perché il nostro obiettivo, certamente il mio, è di pesare il meno possibile sulla collettività, ma nel rispetto della mia e della nostra dignità di cittadini.
Lettera firmata