Ieri ho letto sui social molti commenti, di uomini ma soprattutto di donne, che con diversi argomenti si scagliavano contro la doppia preferenza di genere o qualsiasi strumento possa in qualche modo favorire le donne nella competizione elettorale.
Provo a fare una carrellata di quanto ho letto (gli argomenti sollevati contro l’uso delle quote sono diversi):
Le quote sono contro il principio di pari opportunità per tutti, poiché le donne ne risulterebbero avvantaggiate.
Dire che le donne sarebbero avvantaggiate dalle quote vuol dire non prendere in considerazione gli svantaggi sociali (derivati soprattutto dalla divisione sessuale del lavoro e dalla ripartizione storica e tradizionale della sfera pubblica e della sfera privata tra i sessi) che, di fatto, hanno impedito alle donne di occupare i posti di potere che sarebbero spettati loro.
Le quote non sono democratiche, perché sono gli elettori che devono decidere chi sarà eletto.
Un elettore non può mai scegliere chi non è nelle liste elettorali, chi non è candidato. (la presenza delle donne nelle liste è stata innalzata solo al massimo al 35%)
Le quote implicano che il sesso interviene al posto delle competenze e così alcuni canditati tra i più competenti vengono scartati.
La tematica delle competenze emerge misteriosamente solo quando si parla di quote e soprattutto solo e se si parla di donne. I candidati uomini sarebbero competenti per natura.
Alcune donne non vogliono essere elette solo perché sono donne. (e giù commenti sdegnati di quanto queste donne si sentono svilite dalle quote!)
L’esperienza delle donne è necessaria alla vita politica, ed è evidente che i capi dei partiti sceglieranno tra le donne quelle maggiormente in grado di attirare voti (avrei voluto scrivere: le migliori e le più competenti, ma questi a volte sono criteri secondari nelle scelte delle candidature!).
L’introduzione delle quote crea gravi conflitti all’interno degli stessi partiti.
E’ vero, si tratta di far posto a nuovi soggetti che nutrono legittime aspirazioni ad occupare posti di potere. Ciò non può avvenire se non a discapito di candidati (dirigenti e militanti, o candidati esterni) già presenti nelle strategie di potere dei partiti stessi.
Io affronterei il discorso in un altro modo: le quote funzionano?
Per rispondere chiedo aiuto e lo cito a piene mani, ad un articolo scritto molti anni fa da Alisa Del Re.
Da tempo ci si interroga su quali siano gli strumenti più idonei per perseguire e per raggiungere l’obiettivo di un’equilibrata rappresentanza fra i sessi, focalizzando l’attenzione sull’utilità e sulla praticabilità dell’azione di quote. A livello europeo, analizzando i dati della presenza di elette, si evince che non esiste, in assoluto una “quota” che dia la certezza del risultato. Esistono piuttosto un insieme i fattori che, se presenti contemporaneamente, possono permettere lo sviluppo di una rappresentanza paritaria.
L’efficacia delle quote è strettamente legata alle modalità di applicazione nelle liste elettorali. Nei sistemi elettorali proporzionali, sono necessarie misure sull’alternanza dei candidati affinché le posizioni in cui vengono collocate le donne assicurino una probabilità positiva di elezione.
Tuttavia, il prerequisito senza il quale nessun sistema di quote può funzionare riguarda la capacità delle istituzioni pubbliche di essere presenti come “promotrici di parità effettiva” in tutti i campi del vivere sociale e nella loro stessa composizione. A questo proposito, possiamo citare casi in cui si è ottenuta una rappresentanza paritaria senza ricorrere a quote legislative o di partito (Finlandia), grazie ad una capillare messa in atto di politiche paritarie.
Alisa Del Re sostiene come la nozione di parità si ponga come “un concetto legato alla modernità, alla giustizia sociale, in un’ottica di democrazia sostanziale che rimette in questione il funzionamento sociale e l’immagine simbolica degli uomini e delle donne nella società.” E’ la rivendicazione di un’uguaglianza tra i sessi nella rappresentanza politica, mentre le quote non sono che un mezzo per raggiungere la parità.
“La parità uomo-donna costituisce l’applicazione di un principio e non di una percentuale.” L’affermazione del principio di parità, in politica come in tutti i settori e gli ambiti di vita degli individui, dovrebbe apparire come naturale espressione di una società composta di uomini e donne. Il fatto che queste ultime siano state escluse per secoli, non può più costituire motivo perché continuino ad esserlo.
Il termine “quota” copre una larga gamma di strategie. Le quote possono essere di diverso spessore quantitativo, solitamente dal 20% al 50%.
L’idea alla base delle ‘quote di genere’ consiste nel tentativo di porre le donne in posizioni apicali e assicurarsi che siano in numero sufficiente per poter contare sulla scena politica ed economica. “Drude Dahlerup definisce “soglia critica” la barriera del 40% di presenza femminile (cioè la percentuale al di sotto della quale non è possibile percepire una “presenza di genere” nelle pratiche politiche). Esistono diversi sistemi di quote.
La distinzione principale è tra le quote volontaristiche dei partiti e quote costituzionali o legislative. Molti sistemi sono costruiti gender-neutral, mirano cioè a garantire una rappresentanza paritaria, fissando una soglia massima comune per entrambi i sessi. In questo caso, la richiesta dovrebbe essere che nessuno dei due sessi possa occupare più del 60% o meno del 40% dei seggi. Una quota elettorale minima di donne implica, d’altra parte, un tetto massimo di candidature maschili. Una quota 50-50% è neutra dal punto di vista di genere e consente alle donne di raggiungere il massimo risultato, cosa che una previsione minima di seggi, di fatto, non permette (Dahlerup, 1998). “
Le quote e le altre forme di azioni positive sono quindi un mezzo verso la parità di risultato. In questa prospettiva, le quote non sarebbero una discriminazione nei confronti degli uomini, ma piuttosto una compensazione per le barriere strutturali che le donne incontrano nel processo elettivo.
Antonella Barillà