Cinquanta anni fa, il 27 marzo 1975, usciva nelle sale italiane Fantozzi, un film destinato a lasciare un segno indelebile nella nostra cultura popolare. In questa puntata di “Incontri ravvicinati con Aiace”, Gianluca Gallizioli ricorda il ragioniere più sfortunato del cinema e
d’Italia.
Nato dalla penna di Paolo Villaggio, il ragioniere più sfortunato d’Italia non era solo un personaggio comico, ma un ritratto grottesco e lucidissimo di un’epoca, di una mentalità, di un modo di vivere il lavoro e la società. Il personaggio di Fantozzi nasce negli anni ’60 dai racconti che Villaggio pubblicava su L’Europeo e L’Espresso, prima di diventare un successo editoriale e infine un’icona cinematografica. La sua figura tragicomica ha colpito profondamente il pubblico italiano perché raccontava una verità nascosta sotto la lente della comicità: la frustrazione del lavoratore medio, schiacciato da un sistema che non gli concedeva alcuna dignità.
Se pensiamo al grande cinema italiano, vengono in mente le maschere comiche che hanno segnato la nostra storia: Totò, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi,… Paolo Villaggio ha raccolto questa eredità creando un personaggio che, a differenza di quelli interpretati dai suoi predecessori, non aveva la consolazione dell’astuzia o della scaltrezza. Fantozzi non è il furbo che si salva con la battuta o con l’ingegno, non è il simpatico cialtrone romano o il fanfarone milanese. È un uomo comune, travolto da una realtà che lo schiaccia e lo umilia senza che lui riesca mai davvero a ribellarsi. Villaggio sceglie di non svelare mai il nome della città in cui vive Fantozzi: un dettaglio apparentemente secondario, ma in realtà fondamentale per rendere il personaggio universale. Il ragioniere non appartiene a un luogo preciso, ma incarna la condizione del lavoratore medio ovunque si trovi.
Un dittico perfetto: Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi
I primi due film della saga, Fantozzi (1975) – disponibile su Netflix – e Il secondo tragico Fantozzi (1976) – disponibile su Infinity, rappresentano il punto più alto della saga e un’eccellenza della commedia italiana. A dirigerli fu Luciano Salce, regista capace di unire l’ironia feroce alla critica sociale, mentre la sceneggiatura vide la collaborazione di Villaggio con due firme straordinarie del cinema italiano: Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi, autori di alcune delle pagine più brillanti della nostra cinematografia. A completare il quadro, le musiche inconfondibili di Fabio Frizzi che, con le loro note malinconiche e surreali, accompagnano alla perfezione il senso di sconfitta e assurdità che pervade le disavventure del ragioniere. Due film impeccabili, in cui ogni dettaglio è curato con precisione millimetrica.
Fantozzi il rivoluzionario
Può sembrare assurdo definire Fantozzi un rivoluzionario, eppure, nel suo piccolo, lo è stato. Non ha mai vinto una battaglia, anzi, la sua vita è una continua disfatta, ma proprio in questa sconfitta risiede la sua forza. Il suo personaggio ha dato voce a un’intera classe di lavoratori che, fino a quel momento, non erano mai stati raccontati con tanta crudezza. Se la commedia all’italiana aveva spesso giocato con la figura del piccolo borghese ambizioso, scaltro o cialtrone, Fantozzi segna un cambio di paradigma: non è né un vincente né un furbo, ma un ingranaggio sacrificabile di un sistema che lo stritola senza pietà.

Non si tratta più di ironizzare sui vizi e le aspirazioni del cittadino medio, ma di mostrarne l’impotenza con un realismo spietato, nascosto dietro la risata. La sua sconfitta non è solo individuale, ma collettiva: dietro la sua goffaggine e le sue disavventure si cela il destino di un’intera classe lavoratrice, costretta a subire un mondo costruito per tenerla al margine. La sua rivoluzione non sta nel cambiare le cose, ma nel rivelarle. Il suo grido è un urlo di frustrazione che risuona come un’eco di denuncia, uno sfogo disperato in un contesto in cui ribellarsi è inutile, ma tacere sarebbe ancora peggio. Fantozzi non lotta contro il sistema, perché sa che è più grande di lui, ma il solo fatto che la sua esistenza lo metta a nudo è un atto di resistenza.
Fantozzi e la Valle d’Aosta: la disavventura a Courmayeur
Tra le mille sventure del ragioniere, una delle più memorabili si svolge proprio in Valle d’Aosta. Nel primo Fantozzi del 1975, Ugo si ritrova in una disastrosa gita sulla neve con il geometra Calboni e la signorina Silvani, in quello che dovrebbe essere un weekend di svago e invece si trasforma nell’ennesima umiliazione. Appena arrivati a Courmayeur, per cercare di darsi un tono e impressionare la Silvani, Fantozzi si lascia andare a una millanteria che gli costerà cara: nel goffo tentativo di mostrarsi all’altezza della situazione, con aria sicura proclama: ”Sono stato azzurro di sci!”. Calboni, dal canto suo, finge di conoscere tutta l’aristocrazia presente a Courmayeur, ostentando una sicurezza che contrasta con la sua reale posizione di piccolo impiegato.

L’apice della scena arriva quando, con tono saccente, indica il Monte Bianco esclamando “E quello è il Dente del Giudizio!”, confondendo il celebre Dente del Gigante con un improbabile riferimento odontoiatrico. L’intera sequenza racchiude perfettamente il gioco delle apparenze tipico dell’universo fantozziano: mentre Calboni cerca di elevarsi fingendo conoscenze altolocate, Fantozzi si rifugia nella bugia per un attimo di illusoria grandezza. La realtà però non tarda a presentare il conto: la sua goffa esibizione sugli sci si conclude con una discesa disastrosa, tra capitomboli e umiliazioni, lasciandolo ancora una volta vittima di se stesso e delle circostanze.
Fantozzi oggi: chi è il vero sconfitto?
Quando uscì al cinema nel 1975, Fantozzi rappresentava l’ultimo degli ultimi. Il dipendente sottomesso, la moglie rassegnata, il posto fisso sinonimo di prigionia. Eppure, guardando oggi la sua vita, emerge una verità ancora più amara: Fantozzi aveva una casa di proprietà, una macchina, ferie pagate e, soprattutto, un lavoro a tempo indeterminato che gli garantiva una stabilità economica. Oggi, un giovane precario faticherebbe a ottenere ciò che lui, pur nel suo continuo essere vessato e frustrato, possedeva senza rendersene conto. Se negli anni ‘70 faceva ridere per la sua mediocrità, oggi lo invidieremmo per le sicurezze che aveva e che le nuove generazioni possono solo sognare. Cinquanta anni dopo, Fantozzi continua a parlarci. E forse, a pensarci bene, non è lui a essere stato sconfitto dalla storia. Siamo noi.

di Gianluca Gallizioli