Rob Reiner: quattro film, un’idea di cinema

In seguito alla tragica scomparsa di Rob Reiner, Gianluca Gallizioli ricorda quattro film che, tra il 1986 e il 1990, hanno segnato l’eredità cinematografica del regista statunitense.
Rob Reiner LBJ Library DIG
Incontri ravvicinati con AIACE

La morte tragica di Rob Reiner, assassinato insieme alla moglie nella loro casa di Los Angeles, chiude in modo brutale la storia di un regista che ha segnato il cinema americano in maniera profonda e silenziosa. Il suo nome non è mai stato associato all’idea di “autore genio”, né a uno stile immediatamente riconoscibile, eppure il suo contributo resta decisivo, soprattutto se si guarda a un momento preciso della sua carriera. Tra il 1986 e il 1990, Reiner realizza quattro film consecutivi che, ancora oggi, raccontano meglio di qualunque manifesto la sua idea di cinema.

È un quadriennio straordinario e difficilmente replicabile, dopo il quale la sua filmografia diventerà inevitabilmente più irregolare, senza più raggiungere le stesse vette. In quei quattro titoli c’è tutto: la fiducia nel racconto, lattenzione assoluta ai personaggi, la capacità di attraversare generi diversi parlando a pubblici differenti senza mai semplificare lo sguardo.

Reiner è stato, prima di tutto, un narratore. Uno di quelli che credeva nel cinema come esperienza condivisa, come luogo in cui spettatori di età e sensibilità diverse potessero ritrovarsi davanti alla stessa storia, riconoscendosi. È proprio da questi quattro film che vale la pena partire, analizzandoli uno per uno, per capire come quella visione si sia tradotta in opere capaci di attraversare generi e generazioni senza mai perdere autenticità.

Stand by Me – Ricordo di unestate (1986)

Forse il film in cui Rob Reiner mette più a nudo il proprio sguardo sul tempo e sulla memoria. Tratto da un racconto di Stephen King, prende la forma di un’avventura infantile solo in apparenza: il viaggio dei quattro ragazzi alla ricerca di un corpo diventa presto un attraversamento simbolico, l’ultimo prima che l’infanzia si chiuda definitivamente. Reiner è straordinario nel trattare questa materia senza nostalgia compiaciuta. Non idealizza l’amicizia, non la trasforma in mito, ma la osserva mentre si incrina, mentre viene messa alla prova da famiglie disfunzionali, dalla paura di non essere visti, dal peso di un futuro che incombe.

Il film vive di piccoli gesti, di silenzi, di sguardi rubati più che di eventi. La morte, pur centrale, resta quasi fuori campo: ciò che davvero fa male è la consapevolezza che quel legame, così assoluto e necessario in quell’estate, non potrà sopravvivere intatto al tempo. Il regista accompagna i suoi personaggi con un rispetto profondo, lasciando che l’emozione emerga senza essere mai guidata o sottolineata. È qui che il film diventa universale, perché parla di un momento che tutti, prima o poi, abbiamo attraversato, quello in cui capiamo che crescere significa anche perdere. E farlo con questa misura, con questa pudica intensità, resta uno dei gesti più alti e duraturi del suo cinema.

La storia fantastica (1987)

la storia fantastica
La storia fantastica di Rob Reiner

Con “La storia fantastica” Rob Reiner sembra spostarsi su un territorio completamente diverso, anche se in realtà continua a esplorare gli stessi nodi emotivi da un’altra angolazione. Qui il racconto diventa esplicitamente una fiaba, dichiarata e abbracciata fino in fondo, mai trattata con leggerezza superficiale. Reiner costruisce un universo in cui lavventura, il romanticismo e lumorismo convivono in perfetto equilibrio, senza che uno schiacci l’altro. Ogni elemento, dal duello alla battuta, dalla magia al sentimento, è calibrato con una precisione che rivela un controllo assoluto del tono.

Al centro del film c’è anche una cornice che ne svela il senso più profondo: il rapporto tra un nonno e un nipote, apparentemente lontani, che si ritrovano proprio attraverso il potere del racconto. La fiaba diventa così uno spazio di incontro, un linguaggio condiviso capace di colmare una distanza generazionale. Nel finale, quando la storia si chiude e il bambino chiede di sentirla ancora, Reiner suggerisce che l’amore passa anche da lì: dal tempo dedicato, dall’ascolto, dalla capacità di credere, almeno per un momento, nella stessa storia.

Harry, ti presento Sally… (1989)

Una commedia romantica che parte da una domanda semplice e universale: può esistere amicizia tra un uomo e una donna? Il film segue Harry e Sally osservandoli mentre cambiano, si contraddicono, si feriscono e si cercano. Reiner non ha fretta di portarli a destinazione lasciando che il sentimento maturi, che passi attraverso il disincanto, le relazioni sbagliate e le attese frustrate. I dialoghi di Nora Ephron sono affilati, spiritosi e profondamente umani, perché nascono dall’osservazione della vita quotidiana e delle sue goffaggini emotive. La regia accompagna tutto questo con una discrezione assoluta, senza mai imporre un punto di vista, affidandosi ai volti, ai silenzi, ai piccoli scarti tra ciò che i personaggi dicono e ciò che provano. “Harry, ti presento Sally…” È una storia che prende sul serio lamore proprio perché ne mostra le difficoltà e le imperfezioni. Ed è proprio in questa onestà, in questo equilibrio raro tra ironia e malinconia, che continua a parlare con la stessa forza, allora come oggi.

Misery non deve morire (1990)

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Misery non deve morire di Rob Reiner

Lo straordinario quadriennio del regista si chiude con il film più duro e spoglio della sua carriera. Ancora una volta Reiner attinge a Stephen King, abbandonando ogni elemento di avventura o di leggerezza per immergersi in un racconto interamente dominato dalla prigionia, fisica e mentale. La vicenda si svolge quasi tutta in uno spazio chiuso, soffocante, che Reiner trasforma in un campo di tensione continua, dove ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio diventa potenzialmente letale. Al centro del film c’è un confronto inquietante tra due solitudini: lo scrittore immobilizzato e la sua fan, convinta di sapere cosa sia meglio per lui.

Misery diventa così una riflessione feroce sul controllo, sull’amore che si trasforma in possesso, sul rapporto ambiguo tra chi crea e chi consuma le storie. Kathy Bates costruisce un personaggio indimenticabile, capace di passare dalla premura alla violenza con una naturalezza disarmante, incarnando una forma di fanatismo tanto più spaventosa quanto più quotidiana. Anche nel suo film più oscuro, il regista, non rinuncia a interrogarsi sull’umanità dei personaggi, mostrando come il bisogno di essere amati possa facilmente mutare in una forza distruttiva.

Quello che resta di Rob Reiner, guardando oggi questi film, è un’idea di cinema che sembra essere sempre più rara. Storie pensate per durare nel tempo, non per colpire nell’immediato; film capaci di parlare a chiunque senza rinunciare alla cura, allintelligenza, allemozione.

È una longevità che nasce dalla chiarezza dello sguardo. In un presente in cui il cinema sembra spesso inseguire l’urgenza o l’eccezione, quell’idea di racconto solido, generoso, profondamente umano appare quasi rivoluzionaria. Ed è forse questo il lascito più forte di Rob Reiner: ricordarci che il cinema può essere grande anche quando sceglie, semplicemente, di essere vicino alle persone.

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