La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne è diventata da anni una dolorosa ritualità collettiva. Non c’è comune o istituzione pubblica che manchi all’appuntamento, non c’è giornale che sfugga all’obbligo morale di occuparsi di questo tema drammatico, non c’è centro antiviolenza o associazione femminile o femminista che non colga l’occasione, giustamente, di far sentire finalmente la propria voce.
E non c’è momento migliore per pubblicare libri che trattano l’argomento in un modo o nell’altro, per arrivare nelle sale con un documentario o un film, per presentare a teatro un nuovo spettacolo incentrato sulle donne e le violenze maschili che subiscono.
I dati del resto sono agghiaccianti: secondo l’Istat, in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, parliamo quindi di 7 milioni di donne vittime di aggressioni fisiche, molestie, stupri da parte di uomini appartenenti perlopiù alla cerchia familiare o amicale. Nei primi dieci mesi del 2020 96 donne sono state vittime di femminicidio, uccise in quanto donne nel contesto familiare nell’89% dei casi, ma il dato non tiene conto degli assassinii verificatisi negli ultimi giorni: tre donne uccise in quarantotto ore dai propri partner o ex partner.
Agli omicidi per mano maschile vanno aggiunti i casi di violenza psicologica, i maltrattamenti, lo stalking, la violenza sessuale e tutti questi dati devono essere accostati ad altri che completano il quadro: per quanto riguarda i finanziamenti pubblici ai centri antiviolenza (i dati sono stati rilevati da Action Aid) nel biennio 2015-2016 è stato erogato il 72% della somma stanziata, nel 2017 il 67%, nel 2018 il 39% e nel 2019 al 10%; il Piano nazionale antiviolenza 2017-2020 a un mese dalla sua conclusione ha portato all’attuazione del 60% delle azioni previste; le attività di prevenzione sono state implementate per meno del 37%; le case rifugio per donne maltrattate sono in tutto in Italia 264 (dati 2019), ma secondo gli standard internazionali dovrebbero essere 2700.
La sociologa Graziella Priulla, una tra le prime a occuparsi con costanza e determinazione di violenza di genere, lo ha ricordato in un post su Facebook per arginare, numeri alla mano, le derive retoriche d’occasione delle istituzioni pubbliche del nostro Paese. È uno di quei casi in cui i social servono a rompere una narrazione che vorrebbe le istituzioni locali e nazionali compattamente schierate a fianco delle donne, quando sappiamo bene che senza risorse adeguate non è possibile né rendere più efficace la prevenzione della violenza maschile, agendo sulla diffusa e persistente cultura del possesso e dello stupro, né consentire alle vittime di abusi e maltrattamenti di ricostruirsi una vita.
L’epidemia con la conseguente impossibilità a svolgere iniziative in presenza e il ricorso, quindi, alle dirette online ha consentito in occasione di questo 25 novembre di seguire, in live streaming o successivamente su YouTube, una miriade di incontri organizzati da soggetti sparsi per tutto il territorio nazionale. Si è resa così evidente l’articolazione, la complessità del fenomeno della violenza di genere che trae origine dalla mentalità patriarcale e maschilista, molto spesso unisex ovvero condivisa anche dalle donne che hanno introiettato gerarchie e disvalori della mascolinità tossica, e si manifesta in modi diversi e tutti ugualmente perniciosi.
Si va dal revenge porn, di cui molto si è parlato in questi giorni dopo il caso della maestra di Torino licenziata perché l’ex partner ha fatto circolare video e fotografie private che la riguardavano, al mansplaining, la propensione maschile, specie nei contesti professionali, a spiegare alle donne ciò che già sanno o sanno meglio di altri, dandone per scontata l’ignoranza e l’incompetenza e minandone di continuo l’autorevolezza.
Si passa poi alle sempre necessarie riflessioni sugli effetti dannosi degli stereotipi di genere, ai conti mai fatti veramente con le rappresentazioni mentali misogine che producono vagheggiamenti sulla “naturalità” dei ruoli maschili e femminili (uomini dominanti e donne passive per natura; maschi che lavorano e donne relegate nel focolare domestico; donne rigorosamente divise tra sante e puttane), al sessismo linguistico che permea volente o no la nostra visione del mondo, fino ad arrivare alla necessità da parte maschile di interrogarsi sul significato di essere uomini in una società mutata, ma che ancora tollera sopraffazioni e discriminazioni ai danni delle donne.
Tutta la galassia della violenza di stampo sessista è stata raccontata in questi giorni anche grazie ai social media, dando vita a una contronarrazione che a volerla ascoltare ci mette al riparo dalla vacuità di molte esternazioni pubbliche di chi si occupa di violenza maschile contro le donne un solo giorno all’anno, omettendo tra l’altro quell’aggettivo che specifica chi agisce violenza per registrare in questo modo un dato di fatto che, a quanto pare, in molti e molte fanno ancora fatica ad accettare.
Viviana Rosi