Chi è davvero Agan Ramic, il 56enne arrestato il 13 aprile dell’anno scorso, al tunnel del Monte Bianco, dopo essere stato trovato alla guida di un furgone con 2 chili e 400 grammi di tritolo? Scoprirlo non era l’obiettivo del processo conclusosi al Tribunale di Aosta oggi, martedì 30 aprile, con la condanna dell’imputato a 3 anni e 4 mesi di reclusione per importazione di esplosivi. Tuttavia, alcuni atti d’indagine collocano l’uomo, dalla cittadinanza bosniaca e francese, al centro di uno scenario in penombra, a cavallo tra le (nuove) paure dell’occidente e il cinico disincanto di un est ormai Europa, ma che fa ancora i conti con le ferite di un conflitto a base etnica.
Nel concitato giorno del suo fermo (tra un alternarsi di funzionari di Polizia e la presenza del pm Luca Ceccanti e del Procuratore capo Paolo Fortuna, negli uffici della frontiera), sul Mercedes Sprinter condotto dall’uomo, in un vano dietro l’autoradio erano stati trovati quindici panetti della sostanza esplodente e due detonatori elettrici erano altrove a bordo. Il mezzo aveva iniziato il suo viaggio verso la Bosnia da Annecy e a bordo c’erano tre uomini e una donna, tutti connazionali, risultati poi estranei ai fatti. Per Ramic, presidente di un’associazione umanitaria attiva nel trasporto di ex profughi dalla Francia all’ex Jugoslavia, non era certo il primo spostamento del genere.
Tuttavia, quel ruolo, quasi umanitario, pare non essere stato l’unico interpretato dall’uomo, che in uno dei primi interrogatori cui è stato sottoposto ha ammesso di aver “combattuto in Bosnia dal 1992 al 1996”. Dalle rogatorie internazionali richieste dagli inquirenti ai Paesi di partenza e arrivo del viaggio (non è risultato aver mai soggiornato in Italia), “è confermato – spiega il suo difensore, l’avvocato Laura Marozzo – che fino al giorno dell’arresto ha collaborato con le autorità bosniache e francesi per debellare il traffico internazionale di armi. Ma essendo un collaboratore dei servizi segreti, i servizi hanno potuto dire ben poco, se non che ha collaborato fino a quel momento”.
Un’ammissione che, secondo il legale, pur nell’impossibilità delle autorità italiane di ottenere ulteriori informazioni, rilancia la bontà della tesi sostenuta da Ramic sin dal momento in cui gli agenti diretti dal vicequestore Alessandro Zanzi lo hanno bloccato sul piazzale italiano del tunnel, cioè “che questo tritolo è stato messo nel suo veicolo dai trafficanti che volevano neutralizzarlo, perché avrebbero saputo che lui era la fonte delle informazioni per la polizia” straniera. Al riguardo, l’avvocato fa risaltare che “ci sono delle contradizioni in questa vicenda: che senso aveva trasportare del tritolo dalla Francia verso la Bosnia, Paese in cui si trova molto più facilmente?”.
Nel processo svoltosi con rito abbreviato, il pm Ceccanti aveva chiesto al Gup Davide Paladino una condanna a quattro anni di reclusione. Il 56enne franco-bosniaco rimane nella cella di Brissogne in cui è stato rinchiuso dopo che ai suoi polsi sono scattate le manette. Stamane, all’uscita dal tribunale, è apparso molto tranquillo. “Mi posso dire soddisfatta perché il mio assistito è stato assolto per un capo d’imputazione. – chiude l’avvocato Marozzo – Sull’eventuale appello mi riservo di decidere dopo la lettura della sentenza”. Chi è davvero Ramic, se la vittima di una congiura ordita da coloro che ha avversato, o la pedina di un gioco tra intelligence sacrificata per aver fatto il passo più lungo della gamba, però, non lo sapremo mai.