Lavorare in ambito ospedaliero, anche se non a contatto “diretto” con il Covid-19, mette a rischio tutti gli operatori sanitari. Lo può testimoniare Elisa Giometto, infermiera, che, nonostante i dispositivi di protezione e nonostante all’epoca dei fatti operasse ancora in ortopedia, ha ripreso a lavorare da pochi giorni nel reparto Covid 4 dopo essere rimasta a casa quasi un mese a seguito della positività al coronavirus. La sua storia, oltre a raccontare i cosiddetti “rischi del mestiere”, mette però in evidenza anche le carenze – già note – dal punto di vista del personale sanitario ed alcuni ritardi nelle procedure che, forse, andrebbero snellite per alcune categorie fondamentali come lo sono medici, infermieri ed oss.
Dopo il turno di notte il 14 ottobre, Elisa inizia ad accusare spossatezza, tosse, fiato corto ed una “febbricola, inizialmente sui 37.2°, fino ad un massimo di 37.4°, ma mi sentivo uno straccio, come quando mi era capitato di avere la febbre a 40°”. Elisa rimane a casa in mutua e, dopo due giorni, emerge la positività di due pazienti di ortopedia da lei assistiti. Già il 15 ottobre viene fatta la richiesta per il suo tampone, che però non viene eseguito prima del 18: nel mentre, era sopraggiunta la perdita di gusto ed olfatto. “Avevo tanti dolori al torace quando respiravo e mi muovevo, dovevo cercare posizioni assurde per dormire”, racconta. “Ho avuto un po’ di paura, perché avendo lavorato nei reparti Covid a marzo, avevo visto coi miei occhi come situazioni apparentemente tranquille potessero precipitare nel giro di poco, e temevo che potesse accadere anche a me”.
Dopo la positività scoperta sul FSE dopo poche ore, l’infermiera si mette in isolamento insieme al compagno (risultato negativo) ed ai tre figli di 8, 6 e 3 anni, soprattutto per proteggere la madre che, vista l’età e le patologie pregresse, è più a rischio: “Anche lei è poi risultata positiva, ma con pochissimi sintomi, per fortuna”. Il primo tampone per la guarigione era previsto per il 28 ottobre, “ma anche in questo caso nel giorno prefissato non è passato nessuno nonostante il giorno prima avessi chiamato per assicurarmene, memore del ritardo del primo tampone”. Questo viene eseguito il 29 ed il risultato arriva molto tardi, ed è ancora positivo.
Il terzo, che si rivelerà poi quello della “liberazione”, era in programma per il 5 novembre. Anche in questo caso, nessuno si fa vedere. “Sapevo che in altri reparti sono gli stessi colleghi ad effettuare il test, così ci siamo organizzati ed una collega è passata a farmelo”, continua Elisa Giometto. La sera di domenica 8 novembre, finalmente, arriva l’ordinanza che le permette la libertà e, soprattutto, di tornare a lavorare, in un settore in cui la carenza di personale si sta rivelando atavica, ed ancora di più dopo le tante positività tra i sanitari.
“So che il sistema è ingolfato, ma a volte non posso fare a meno di chiedermi se non sia il caso di prevedere una “corsia preferenziale” per chi fa il nostro mestiere: oltre a quelli malati, i colleghi in attesa di tampone sono tanti, ed ogni ritardo mette ancora più in difficoltà il sistema in una fase in cui è molto importante che noi sanitari torniamo a lavorare. Nonostante le raccomandazioni al SITRA, l’organico è ridotto all’osso, e se alla prima ondata di notte eravamo in quattro, siamo rimasti a due come quando eravamo ortopedia, con pazienti che da un momento all’altro rischiano di avere forti peggioramenti”.
A cambiare rispetto a marzo, oltre all’organico sempre più sottodimensionato, per Giometto è anche lo spirito: “Le condizioni lavorative sono peggiorate, se in più aggiungiamo negazionisti o no-mask, il nostro lavoro è sempre più provante”, conclude.