Un lavoro stabile, ben pagato, vicino a casa. Tante sicurezze che si infrangono di fronte alle immagini e notizie che ogni giorno ti pongono davanti ad un’evidenza: è solo questione di fortuna esser nati in un posto anziché in un altro. L’impotenza di tanti davanti a quelle immagini, diventa invece per alcuni l’urgenza di agire. E’ stato così per Chiara Cardellino, infettivologa 41enne di Aosta. Tre anni fa la decisione, a fronte di un’aspettativa non concessa, di mollare il suo lavoro nel reparto di Malattie infettive dell’Ospedale Parini di Aosta prima e nell’Istituto di malattie tropicali di Negrar (Vr) poi, per partire con Medici senza frontiere. Una prima missione in Guinea per lavorare con pazienti affetti da HIV, una seconda in Uzbekistan nel campo della tubercolosi multiresistente. Poi la consapevolezza che c’era tanto lavoro da fare anche restando in Italia. “Quando ero via con Medici senza frontiere, sapevo di fare comunque una cosa importante, con una grandissima organizzazione che lavora molto bene, però penso che si possa fare di più qui vicino a casa”.
I continui sbarchi sulle coste della Sicilia, ma soprattutto i naufragi di cui non sempre si hanno notizie inducono Chiara Cardellino a cercare una missione sulla quale imbarcarsi. “Siamo di fronte ad una tragedia immensa, continua, che sta solo peggiorando”. L’occasione arriva a fine agosto quando risponde ad un avviso lanciato da Resq People. “Ho mandato il curriculum e la sera stessa mi hanno chiamato, perché la nave era stata bloccata per un paio di mesi e il medico che inizialmente aveva dato la disponibilità a partire aveva preso altri impegni”.
La formazione e la preparazione prima di salpare
Il 23 agosto Chiara Cardellino sale a bordo della nave attraccata a Siracusa con altre 20 persone. E’ l’unica dottoressa. Insieme a lei c’è un’infermiera anestesista e di rianimazione, dei mediatori interculturali e poi cuochi, giornalisti di missione e l’equipaggio marittimo. “La missione è del tutto volontaria, a parte gli ufficiali di bordo, nessuno di noi viene pagato”. Le prime settimane sono dedicate alla formazione e alla preparazione della nave. “Con l’infermiera abbiamo rivisto tutto l’inventario dell’ospedale di bordo, provato l’attrezzatura, messo in ordine e fatto pulizia, oltre a procurarci alcune cose mancanti”. La nave va caricata con centinaia di coperte, vestiti, centinaia di chili di riso, cous cous, alimenti in scatola, alimenti terapeutici. I costi sono enormi, sostenuti grazie alle donazioni.
Bisogna poi imparare il linguaggio del mare, capire il contesto del Mediterraneo, saper effettuare il Sea watch, ascoltare le comunicazioni radio e seguire il radar, conoscere tutte le procedure del soccorso in mare.
“Il bello di Resq People è che essendo in pochi tutti partecipano a tutte le attività”. Quattro persone sono impegnate su quattro turni di quattro ore con dei binocoli a scrutare il mare nelle quattro direzioni.
Il soccorso a 96 persone
Dopo i lunghi preparativi, l’11 settembre, mentre in Valle d’Aosta suonava la prima campanella del nuovo anno scolastico, Chiara Cardellino lascia assieme a tutto l’equipaggio di Resq People il porto di Siracusa. L’attendono due giorni di navigazione in un mare, spesso agitato. Lo sarà il 13 settembre quando finalmente arrivano in acque internazionali e vengono subito segnalati nove casi di distress, ovvero di barche in pericolo.
“Mi domandavo cosa volesse dire barca in pericolo. Ho poi capito che è una qualsiasi barca che parte dalla Libia o dalla Tunisia, perché non sono barche, ma scafi di legno o metallo. Non è tanto la questione del motore, che c’è e funziona, ma spesso rimangono senza benzina o imbarcano acqua. Sono estremamente pericolose”. Si parte, ma non c’è alcuna certezza di arrivare, tanto che i trafficanti e gli scafisti non salgono a bordo. “Le persone vengono minacciate e picchiate in Libia e Tunisia, filmati e i video mandati a casa, trattenute fino a quando non ricevono i soldi necessari e poi spedite da sole in mare”.
La nave di Resq People, l’unica in quel momento a fare soccorso, individua due imbarcazioni. Il buio è calato e il mare è diventato per fortuna “liscio come l’olio”. Tutti sono pronti al soccorso, con caschi, giubbotti e guanti e gommoni calati in mare.
L’avvicinamento al “barchino” è il momento cruciale della missione. Bisogna lottare contro l’istinto di sopravvivenza che spinge le persone a voler saltare sui gommoni, rischiando però così di far ribaltare l’imbarcazione e finire tutti in acqua. Per questo i gommoni si avvicinano ai due lati dello scafo, iniziando a far segno agli occupanti dello scafo di stare seduti, mentre il mediatore cerca di comunicare con loro. “Noi abbiamo avuto la fortuna di avere un ragazzo del Mali, che nel 2011 ha compiuto il loro stesso viaggio e che ha avuto un coraggio immenso nell’affrontare questa missione, riaprendo i traumi vissuti”. Madi, il suo nome, parla Bambara, lingua conosciuta da molte delle 47 persone presenti sull’imbarcazione, provenienti dall’Africa subsahariana. Grazie anche a lui, l’operazione si svolge senza scene di panico e tensione. Vengono distribuiti i giubbotti e raccolte le prime informazioni: quante persone sono a bordo, se viaggiavano con altre imbarcazioni, se ci sono donne, bambini e feriti. Sono tutti giovani e giovanissimi, sotto i 26 anni. “Erano da tre giorni in mare. La cosa più impressionante è stata che erano tutti disidratati e stremati, non si reggevano in piedi. Abbiamo dovuto tirarli su di peso perché da soli non ce la facevano a salire sul gommone e poi sulla nave”.
Qui inizia per Chiara ed altri il lavoro di prima assistenza. Vengono distribuite coperte, acqua, sali minerali, effettuati i primi triage. E’ proprio mentre Chiara è impegnata in queste operazioni che sente delle grida provenire dall’altro lato della barca. “Penso a qualcuno che sta male”. Chiara assieme ad altri si precipita, quindi, e scopre invece che le grida provengono da un altro “barchino di metallo, saldato alla buona” avvicinatosi alla nave, “pienissimo di gente e che imbarcava acqua”. Nel buio più nero “sembrava tutto irreale, una scena da film”. Rispetto al primo soccorso il panico si è diffuso fra le 49 persone a bordo, tutti gridano e chiedono aiuto. C’è una donna che sta male e c’è la paura di cadere in acqua, cosa che da lì a qualche minuto in effetti avverrà. “Si sono avvicinati perché hanno visto la luce, ma nessuno, nemmeno i radar, si era accorto di loro”. I minuti seguenti sono concitati. I gommoni arrivati sul posto lanciano i salvagenti, mentre dalla nave vengono gettati dei “tubi giganti” a cui le persone possono aggrapparsi, “se hanno la forza per farlo”. A questo punto inizia il recupero dei più fragili. “Fra questi c’è una bambina di dodici anni che viaggiava con la nonna, in cerca della mamma arrivata in Italia con un viaggio precedente”. La bambina sarà la prima a esser salvata, mentre purtroppo la nonna verrà recuperata senza vita.
Troppi casi e pochi soccorritori
“Quello che mi ha più colpito è stato vedere la quantità di casi che potenzialmente hanno bisogno e del fatto che non ci sono abbastanza navi a prestare aiuto. Noi sappiano delle persone che arrivano autonomamente, sappiamo di quelle che vengono salvate, sappiamo solo di alcune persone che muoiono, ma chissà quanti altri casi rimangono nel silenzio e nell’ignoranza. Sono numeri da capogiro”.
Con 96 persone a bordo la nave riparte alla volta di Trapani, il porto assegnato, dove arriverà dopo un giorno e mezzo di traversata.
Nelle ore prima dello sbarco c’è il tempo per alcune visite più approfondite alle persone più fragili, per curare tagli, ferite e ustioni riportate durante il viaggio in mare dalla Tunisia, ma anche per scambiare due chiacchiere, in francese. “Noi non chiediamo nulla, perché non c’è il tempo per prendere in carico eventuali traumi. In quel momento prevale comunque la felicità di esser salvi”. Qualcuno ha voglia di raccontare, come un ragazzo che confida a Chiara di esser arrivato lì dopo tre anni di viaggio: partito dalla Guinea, ha attraverso il Mali, dove ha incontrato Boko Haram, portando sulla propria pelle i segni delle violenze subite. Altri raccontano dei trattamenti subiti in Tunisia, i pestaggi, ma anche i 300 km percorsi a piedi per arrivare al porto, perché in quanto migranti non possono salire su un taxi o un mezzo pubblico Qualcuno chiede a Chiara se anche in Italia c’è questo razzismo nei loro confronti. “Mi spiace, non posso dirti di no” risponde con franchezza Chiara, che di fronte alle discussioni che imperversano in questi giorni sui giornali è netta: “L’accoglienza non sono i Cpr, dei centri di detenzione per persone che non hanno commesso reati. Era già assurdo starci un mese figuriamoci 18 mesi”.
Dopo quattro settimane trascorse con Resq People, Chiara a breve tornerà a prestare soccorso ai migranti. Lo farà con Medici senza frontiere prima a Roccella Jonica e poi a Ventimiglia. “Mi sento in dovere di farlo”.
2 risposte
Il piano Khalergy è solo un “gombloddo!” nevvero…?
Mah…