Educare senza stereotipi: la maestra Maurizia racconta 45 anni di cambiamento

Come sono cambiati i ruoli di genere a scuola? La storica maestra di scuola materna, Maurizia Marguerettaz, racconta 45 anni di esperienza tra stereotipi, educazione e inclusione.
Maestra Maurizia intervista
Società

Negli ultimi decenni, il modo di educare i bambini e di trasmettere i ruoli di genere è profondamente cambiato. Ciò che un tempo sembrava scontato – giochi divisi tra maschi e femmine, compiti domestici assegnati in base al genere, aspettative rigide su come un bambino o una bambina dovesse comportarsi – oggi viene messo in discussione in molte scuole. Ma quanto è cambiata davvero la mentalità su questi temi? E come affrontano oggi gli insegnanti il discorso sull’identità di genere e sulla parità nelle classi?

In occasione dell’8 marzo, abbiamo intervistato Maurizia Marguerettaz, insegnante di scuola materna con 45 anni di esperienza, per capire come si è evoluto il modo di parlare di genere a scuola. Dall’inizio della sua carriera negli anni ‘70 – in un ambiente ancora molto rigido e conservatore – fino ai giorni nostri, la sua testimonianza racconta come l’educazione sia uno strumento fondamentale per abbattere gli stereotipi e aiutare i bambini a costruire un’identità più libera.

Attraverso il ricordo dei suoi primi anni di insegnamento con le suore, il suo approccio innovativo con il libro RosaConfetto, l’esperienza nella scuola pubblica e il suo impegno nell’inclusione, Maurizia ci offre uno sguardo prezioso su come la scuola possa (e debba) essere uno spazio in cui ogni bambino e ogni bambina possano crescere sentendosi sicuro e libero di esplorare ciò che più lo incuriosisce.

I primi anni di insegnamento: le suore e “Rosaconfetto”

“Ho insegnato 45 anni alle scuole materne, per fare questo lavoro ci vuole passione, i bambini lo sentono e hanno bisogno che vengano date loro delle sicurezze, hanno bisogno di sentirsi sicuri e liberi di potersi esprimere”.

Ho iniziato ad insegnare nel ‘77 ed ero in una scuola privata dove c’erano le suore e i primi 12 anni della mia professione li ho passati lì. Era un mondo un po’ rigido sai, c’erano proprio i giochi da maschietti e i giochi da femminucce… A me non piaceva molto questo ambiente, pensavo che fosse più importante stimolare i bambini, farli parlare, giocare, esprimersi… E in quegli anni io avevo adottato un libro, che avevo comprato io con i miei soldi, un libro fantastico che si chiamava “Rosaconfetto”

È la storia di un’elefantina che si chiama Pasqualina che viveva con gli altri suoi fratelli e cugini in questo bel giardino. La sua mamma e il suo papà la vestivano sempre di rosa con le babbucce rosa, i fiocchi rosa e i vestiti rosa e lei dovevo mangiare tante peonie e anemoni per diventare completamente rosa. Pasqualina stava nel suo recinto e faceva quello che le dicevano, ma questa elefantina, rosa non diventava. E la cosa la faceva arrabbiare. Finché, un giorno, Pasqualina si stufa di mangiare sempre solo anemoni e peonie e di stare sempre chiusa in questo recinto. Così, con l’aiuto dei suoi fratelli e cuginetti, Pasqualina esce finalmente dal recinto, libera di giocare e mangiare quello che vuole.

I suoi genitori non erano mica contenti che lei fosse scappata, ma hanno capito che così si è sentita libera. E alla fine anche tutti gli altri suoi amici sono usciti dal recinto per andare a giocare liberi. Ecco io questa cosa la raccontavo sempre tutti gli anni a tutti i bambini e mi ricordo che questa storia piaceva sempre tantissimo ed erano quasi tutti entusiasti alla fine, tutti volevano essere liberi come Pasqualina. Questo libro è stato il mio must per molti anni, il mio modo per relazionarmi con la rigidità dei ruoli di genere.

Il passaggio alla scuola pubblica: l’educazione che costruisce l’identità

Quando poi sono entrata nelle scuole regionali l’ambiente era già diverso, si è incominciata a evidenziare il discorso della differenza di genere, ma era soprattutto il modo in cui si lavorava con i bambini ad essere diverso… La relazione era molto più interattiva e con gli anni e con l’esperienza abbiamo capito che a scuola devi proprio fare questo: accogliere i bambini nel modo migliore possibile, farli sentire tutti uguali, non scartare nessuno, e i giochi devono essere per tutti.

Eravamo un bel gruppo con le mie colleghe e a scuola facevamo diversi giochi legati all’identità del bambino come ad esempio creare la carta d’identità. In questo modo il bambino doveva dire il suo nome e poi descriversi e parlare di sé. Così doveva rispondere ad una serie di domande su cosa gli piace o non gli piace, sul suo carattere, su chi vuole diventare da grande…

Un altro gioco che mi ricordo consisteva nel creare un cartellone con tanti disegni di oggetti di casa e poi si chiedeva ai bambini di piazzare questi oggetti nella colonna della mamma o in quella del papà. Quello che notavamo era che, ad esempio, la lavatrice veniva messa sempre nella colonna della mamma perché il bambino vede queste cose e impara.

Abbiamo continuato a farlo questo gioco e nel tempo abbiamo visto dei cambiamenti in quello che notavano i bambini nelle loro famiglie. Per esempio mi ricordo di questo bambino che mi aveva proprio spiegato che la lavatrice e lo stendino stava in mezzo e anche il forno perché usava queste cose anche il papà, non era più solo la mamma. Se vent’anni prima la cosa era veramente chiara e i compiti ben distinti, dopo questo è cambiato perché son cambiati i sistemi di famiglia. Non c’è più questo stereotipo che la mamma fa questo mentre papà fa quest’altro e quindi anche il bambino lo vede e anche lui si sente meno indirizzato.

I tre anni della scuola dell’infanzia, dai tre ai sei anni, sono i momenti più importanti della vita di un bambino. Sono anni in cui si pongono le basi per lo sviluppo della personalità. Mi ricordo che una collega mi disse: “Maurizia, ricorda che se a vent’anni hai ancora sotto mano quel bambino e ti ricordi com’era a tre anni, noterai che non è cambiato molto“. Questa frase mi è rimasta impressa, perché è incredibilmente vera.

Le caratteristiche di un bambino si vedono già nei primi anni, sia quelle positive che quelle più difficili da gestire. Ecco perché è fondamentale che noi insegnanti siamo in grado di accompagnarlo, limando il più possibile gli aspetti negativi e aiutandolo a sviluppare il meglio di sé. L’umanità chiama altra umanità: è importante evitare che i bambini entrino in dinamiche negative, come il bullismo, e insegnare loro a relazionarsi nel modo più sano possibile. Noi insegnanti, certo, non possiamo cambiare il mondo, ma possiamo fare la differenza nella vita di ogni singolo bambino, anche solo un po’. L’altra cosa importantissima è creare una collaborazione con i genitori, perché l’educazione è un percorso che va fatto insieme. Non è sempre facile, ma è necessario.

Mettersi in relazione con il mondo (moderno)

Far stare bene un bambino a scuola non significa solo metterlo davanti a una scheda e spesso siamo noi insegnanti a dover cambiare prospettiva. Ho avuto la fortuna di lavorare con ottime colleghe, ma anche con alcune che si limitavano a dare schede su schede, lasciando i bambini tutto il giorno davanti a un foglio, senza stimolare un vero confronto. Ma la relazione con un foglio non è una relazione vera. Dobbiamo creare occasioni in cui il bambino possa relazionarsi il più possibile con i suoi compagni e con l’ambiente che lo circonda.

Soprattutto adesso che c’è internet ei bambini sono costantemente circondati da una quantità enorme di informazioni. Ecco perché la scuola deve offrire loro qualcosa di diverso, un’esperienza più concreta e legata al mondo reale. Bisogna portarli sul territorio, invitarli a conoscere e ascoltare i racconti dei genitori, creare occasioni di apprendimento attraverso esperienze dirette.

Un altro aspetto fondamentale è l’inclusione. Rispetto ai miei primi anni di insegnamento, le cose sono cambiate: una volta i bambini stranieri erano pochissimi, mentre oggi rappresentano una parte significativa delle classi. Con la crescente presenza di bambini provenienti da contesti culturali diversi, è fondamentale che la scuola non si limiti a integrare, ma che valorizzi le loro differenze.

Per esempio, l’apprendimento delle lingue a scuola aiuta i bambini a sentirsi parte di una comunità più ampia e a sviluppare empatia nei confronti dei compagni di diverse nazionalità. Il rischio, altrimenti, è che chi è “diverso” rimanga sempre tale, senza mai sentirsi davvero incluso. Per questo, l’insegnante deve essere pienamente coinvolta in questo processo di inclusione, il bambino altrimenti rischia di vivere profondi disagi. Se non lavoriamo in questa direzione, non stiamo davvero facendo il nostro mestiere di insegnanti.

Il grembiulino e il senso di uguaglianza

“Ah, e a proposito di uguaglianza, il grembiulino! Questo è stato un tema su cui abbiamo avuto anche delle discussioni accese con altri plessi scolastici. Noi ci siamo sempre battute per mantenerlo, perché lo vedevamo come un simbolo di uniformità, di uguaglianza. Il grembiule eliminava ogni differenza tra i bambini, permetteva loro di essere tutti uguali.

Negli altri plessi, invece, avevano deciso di toglierlo. Ma senza il grembiulino vedevamo emergere piccole, ma evidenti, differenze: c’era chi aveva la maglietta firmata e chi no, chi sfoggiava vestiti alla moda e chi invece no. Non era una cosa piacevole da osservare in classe. Noi invece abbiamo sempre voluto che, almeno a scuola, i bambini fossero tutti sullo stesso piano. Non abbiamo mai imposto un colore preciso, ma comunque quasi tutte le bambine avevano il grembiulino rosa, mentre i bambini quello azzurro. Noi cercavamo di non assecondare questo schema, ma poi stava ai genitori e c’era chi ci pensava.

Mi ricordo bene una mamma che non voleva assolutamente che la figlia indossasse il grembiule rosa perché non voleva imporle alcun tipo di stereotipo. Sceglieva per lei sempre colori neutri come il rosso e l’arancione. Certo che a volte in questi casi c’era il problema contrario: la bambina o il bambino con il grembiulino arancione si sentiva diverso/a dagli altri, è normale che un bambino voglia sentirsi simile ai suoi compagni. Se tutti indossano un certo tipo di grembiule, lui vorrà averlo uguale. È il meccanismo del gruppo, la cosiddetta ‘legge del branco’. Ecco perché è fondamentale creare un ambiente in cui nessun bambino si senta escluso o diverso, ma piuttosto parte di una comunità accogliente.

Mi ricordo di quella bambina e ho avuto l’occasione di incontrarla da adulta: riconosco quanto sia rimasta fedele ai valori che la madre le aveva trasmesso. Questo mi ha fatto riflettere molto sull’importanza dell’educazione nei primi anni: le scelte che facciamo per i bambini influenzano davvero il loro modo di vedere il mondo“.

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