Il 25 aprile si celebra l’anniversario della Liberazione d’Italia. In questa puntata di Incontri ravvicinati con Aiace, vi proponiamo quattro film che raccontano che cosa significa resistere, ieri come oggi, attraverso il dramma, la storia, l’animazione, il documentario e l’avventura. Quattro storie ambientate in epoche diverse che mettono in scena la lotta per i propri diritti, per la libertà, per la vita. Per approfondire il tema, l’associazione vi invita anche a Bref International Short Film Festival, il festival di cortometraggi con al cuore il tema della resistenza in programma fino al 27 aprile in Plus, ad Aosta.
Una tomba per lucciole di Isao Takahata
Giappone, 1988, animazione, drammatico, storico (disponibile su Netflix)
Esistono i film di guerra e poi esistono i film sulla guerra. Non quelli che mettono in scena le strategie, le battaglie, gli eroi sul campo, ma quelli che si fermano a guardare chi la guerra la subisce nel corpo e nell’anima. “Una tomba per le lucciole” di Isao Takahata è questo: un’opera struggente che sposta lo sguardo dal fronte alle macerie, da chi fa la guerra a chi ne paga il prezzo. Nessuna retorica, nessun compiacimento: solo Seita e Setsuko, due fratelli rimasti orfani che cercano di sopravvivere ai bombardamenti americani sul Giappone, alla fame, all’abbandono, alla lenta e inesorabile disumanizzazione del mondo intorno a loro. In questo film dove la speranza si consuma giorno dopo giorno, la resistenza non è quella delle armi, ma del corpo che si ostina a muoversi, del gesto più piccolo che diventa atto di cura. È la resistenza silenziosa delle vittime.
Con questo ennesimo capolavoro della filmografia del Maestro giapponese, Takahata non giudica ma osserva obbligandoci a fare lo stesso. A restare dentro quello sguardo, senza filtri e senza vie di fuga. “Una tomba per le lucciole” è un film che lacera, perché ci ricorda ciò che troppo spesso scegliamo di ignorare. In un presente in cui scorrono quotidianamente sotto i nostri occhi immagini di bambini senza nome, orfani, feriti, morenti, capaci ormai solo di sfiorarci senza toccarci davvero, questa opera ci costringe a non voltare lo sguardo. A riconoscere il volto delle vittime dietro i numeri, a sentire il peso insopportabile di ogni vita spezzata… a domandarci, con inquietudine, cosa siamo diventati se possiamo guardare tutto questo senza provare più nulla. Perché a furia di abituarci all’orrore, cominciamo a tollerarlo, poi ad accettarlo e infine a non vederlo più.
One life di James Hawes
Regno Unito, 2023, drammatico/storico (disponibile su Now TV)
Ambientato nel 1938, One Life racconta la storia vera di Nicolas Winton, un giovane broker londinese che decide di non restare spettatore di fronte all’avanzata del Nazismo in Europa e alle barbarie che esso comporta. Il film non è soltanto un biopic, ma un potente racconto di Resistenza non armata e di coraggio civile: le azioni del protagonista si svolgono lontano dal campo di battaglia, in uffici asfittici dove bisogna prendere decisioni rapide basandosi su lettere e documenti scritti a macchina. Winton, interpretato da Johnny Flynn, si oppone alla brutalità nazista con gli strumenti della legalità, dando vita ad un salvataggio di massa per aiutare i bambini ebrei minacciati dall’occupazione tedesca della Cecoslovacchia. Nello specifico, nel giro di pochi mesi, organizza per loro un’evacuazione clandestina da Praga al Regno Unito, sfidando la burocrazia e l’indifferenza diffusa.
Nel corso del film, assistiamo alla formazione di una rete di alleanze, fatta di gesti spesso invisibili e di decisioni silenziose: quella di One Life è la Resistenza dei diplomatici, dei ferrovieri, delle madri, dei funzionari disposti a mettersi in pericolo per sabotare un sistema liberticida. Ma non soltanto: il film si interroga sul valore della memoria, una memoria a lungo taciuta e necessaria, inserendo nella narrazione una seconda linea temporale ambientata negli anni ‘80. Qui Winton, ormai anziano, interpretato da un intenso Anthony Hopkins, custodisce con riservatezza fotografie e lettere dei bambini che ha salvato. Non gli interessano i riconoscimenti ufficiali e rifiuta di essere dipinto come un eroe, ma per la prima volta, su insistenza della moglie, riflette sulla possibilità di raccontare pubblicamente la sua storia.
Se il film di James Hawes vi ha colpito, i prossimi titoli che vi consigliamo sono La Rosa Bianca – Sophie School di Marc Rothemund, una vicenda di Resistenza studentesca che vede al centro giovani protagonisti, e La signora dello zoo di Varsavia di Niki Caro, dove un coraggioso gesto umanitario fa ancora una volta la differenza.
Paris is burning di Jennie Livingston
USA, 1990, documentario (disponibile su Mubi)

La resistenza (con la r minuscola) può spesso prescindere dalla storica Resistenza, ma le due partono da una matrice comune: la lotta per i propri diritti, per la libertà, per la vita. Ed è proprio in quest’ultima accezione del termine che collochiamo uno dei documentari più importanti per la comunità LGBTQIA+, forse il documentario che più di ogni altro è stato in grado di mettere in luce una sottocultura emarginata e in difficoltà come quella inquadrata dalla Livingston. Esplorando dall’interno la scena newyorchese delle ball rooms e il sistema delle houses si intravedono le rotture e le contraddizioni del sogno americano e le fragilità di intere comunità: non solo gay, trans e drag, ma anche e soprattutto afroamericani e latinoamericani.
Prima di Madonna e Beyoncé, due icone pop che a più riprese hanno omaggiato la ball culture, durante 6 anni di riprese e interviste Livingston punta i riflettori sui membri di una comunità ignorata e schiacciata dalle disuguaglianze, quando non violentemente aggredita. Ma dalle crepe del capitalismo occidentale sboccia una forma di resistenza non violenta, aperta a tuttə e che usa corpi, costumi, passi di danza, trucchi e lustrini per sfidarsi, cercando di diventare qualcuno, la nuova stella del firmamento o the Mother of the house. Uno spettacolo che si appropria e rivisita topos e cliché della società patriarcale etero-normativa: la donna in carriera, i militari, la Chiesa, i marinai,… Un aspetto che ci conduce a rileggere una delle forme culturali più antiche in grado di svelare e ribaltare i canoni fossilizzati delle società umane: il carnevale (per come lo intende Michail Bachtin). Il termine carnevale è oggi di importanza cruciale, dato che ancora troppo spesso viene usato negativamente per denigrare i pride o altre manifestazioni della cultura LGBTQIA+, quando al contrario è un’archetipica, potente, luminosa e pacifica forma di resistenza.
Il treno di John Frankenheimer
USA/Francia, 1964, (disponibile su MGM+ o a noleggio online)

Cos’è stata la Resistenza? Quale ne è lo spirito, oltre che le pratiche? In Italia ne abbiamo un’idea abbastanza chiara, frutto di racconti orali, scritti e visuali. Conosciamo meno le forme di Resistenza del resto del mondo, soprattutto del resto d’Europa, a parte singoli casi assurti agli onori dell’arte. “Il treno”, diretto da John Frankenheimer, racconta le peripezie – più vicine alla leggenda che alla realtà raccontata dal libro di Rose Valland (storica dell’arte e partigiana) che ha molto liberamente ispirato il film – di un gruppo di ferrovieri membri della Resistenza per salvare delle opere d’arte inestimabili che un generale nazista ta trafugando pochi giorni prima della sconfitta.
Se nella realtà si usò la burocrazia e i cavilli legali per non far muovere il treno, il regista, i produttori e la star Burt Lancaster (che fece licenziare il primo regista, Arthur Penn) decidono di stampare la leggenda: eppure, sta lì che si annida il cuore stesso della Resistenza, nei sabotaggi, nei micro-atti di ribellione, nella vicinanza tra sconosciuti in nome della causa, nella comunità che si crea spontaneamente.
E poi i caduti, la fuga nei boschi, il sacrificio: un film tanto umanista quanto spettacolare, un kolossal dal respiro profondo, modernissimo nella messinscena, che dietro il trionfo si chiede se un’opera d’arte valga una vita umana e, se sì, quale sia il suo valore. E beffardamente risponde pure: 4 franchi.