Aveva “reso credibili le accuse”: niente indennizzo d’ingiusta detenzione ad imprenditore
Niente indennizzo per ingiusta detenzione ad Eliseo Duclos, imprenditore caseario 66enne di Gignod, coinvolto nel processo sul risanamento del bestiame e l’adulterazione di Fontine, nato da indagini del Corpo forestale della Valle d’Aosta e dei Carabinieri (anche dei Nas) su fatti del 2008. Il primo “no” era arrivato nell’aprile dell’anno scorso dalla Corte d’Appello di Torino, cui l’uomo aveva rivolto la richiesta di riparazione, e il giudizio negativo è stato ribadito dalla Corte di Cassazione, dinanzi alla quale Duclos aveva impugnato la sentenza torinese, dopo l’udienza dello scorso 12 gennaio.
La misura cautelare
Il 66enne, all’inizio dell’inchiesta che aveva segnato un vero e proprio terremoto nel mondo della zootecnica valdostana (coordinata dall’allora pm Pasquale Longarini, con sessantun imputati in primo grado), era stato sottoposto nel 2009 a diciassette giorni di custodia cautelare in carcere, cui ne erano seguiti cinquanta ai “domiciliari”, conclusisi il 15 gennaio 2010. A quei 67 giorni di misura, applicata dal Gip del Tribunale di Aosta con ordinanza, era relativa la richiesta di riparazione dell’imprenditore.
Gli addebiti nei confronti di Duclos includevano l’associazione per delinquere, il commercio di sostanze alimentari nocive, l’adulterazione di alimenti, il falso e la truffa (anche in forma aggravata, per il conseguimento di pubbliche erogazioni). L’iter processuale era stato lungo e complesso, caratterizzato anche (in primo grado) dal protrarsi dei tempi della perizia sulla traduzione e trascrizione delle intercettazioni di conversazioni in patois effettuate dagli inquirenti.
Le sentenze di primo grado
Da parte delle imputazioni mossegli, Duclos era stato assolto già in fase di udienza preliminare, nel febbraio 2014, con il rinvio a giudizio per altri episodi riscontrati nell’inchiesta. Dinanzi al tribunale di Aosta, il processo si concluse nell’ottobre dello stesso anno, con l’assoluzione per cinque reati, il non doversi procedere per la truffa aggravata e la condanna a quattro anni di reclusione per cinque capi d’imputazione.
L’uscita di scena in appello
Nell’ottobre 2017, dopo l’udienza alla Corte d’appello di Torino, l’imprenditore esce di scena senza conseguenze, perché incassa, in riforma parziale del grado precedente, l’assoluzione su vari capi d’imputazione e il “non doversi procedere” sull’accusa di adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari (derubricata dai giudici e dichiarata estinta per prescrizione). Un esito che, divenuto definitivo (nel febbraio 2018), aveva spinto l’imprenditore a depositare la richiesta di riparazione per la detenzione iniziale, ritenuta ingiusta alla luce della sentenza processuale di secondo grado.
I motivi di ricorso
Quella domanda incontra però il rigetto della Corte d’Appello e il 66enne, attraverso i suoi difensori Jacques Fosson e Massimiliano Sciulli, impugna però la decisione dinanzi alla Suprema Corte. La tesi? “I giudici della riparazione – era uno dei motivi del ricorso in Cassazione – assumono che siano state penalmente illecite condotte ritenute dai giudici di merito lecite e frutto della mancata conoscenza delle prescrizioni normative”.
La colorazione rossa della Fontina, che aveva fatto parlare a lungo nel processo di primo grado, secondo la sentenza di assoluzione “rappresentava un difetto merceologico del prodotto e non certo una condotta avente il fumus di illceità penale”. Allo stesso modo, sulla “miscelazione del latte la contestazione nasceva dalla mancata conoscenza della normativa e non da una condotta illegittima”. Infondata, avevano evidenziato i difensori, “era anche la contestazione delle stalle non registrate”, perché derivante “dalla confusione, ad opera degli inquirenti, del titolare” delle stesse.
L’epilogo in Cassazione
In sostanza, per i legali Fosson e Sciulli, la detenzione applicata a Duclos era da ritenersi ingiusta perché “ristretto per 67 gironi per un’erronea qualificazione di un fatto che al più avrebbe potuto integrare una contravvenzione (peraltro oblazionabile)”. Per i giudici di Cassazione, tuttavia, “la sentenza del merito non ha escluso né i fatti relativi alle condotte, poste a fondamento degli stessi, né soprattutto il loro significato sfavorevole a carico del medesimo Duclos” e la rispettiva idoneità degli esiti di tali comportamenti “a creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità”.
L’ordinanza di rigetto della richiesta di riparazione appare quindi “adeguatamente e congruamente motivata” poiché in essa sono specificati “i comportamenti del ricorrente caratterizzati da dolo o comunque da spiccata leggerezza o macroscopica trascuratezza o evidente imprudenza”. Ne consegue che il provvedimento di restrizione vada considerato emesso “in un quadro gravemente indiziario cui aveva dato luogo anche il ricorrente con un comportamento illecito che aveva reso credibili le accuse mosse nei suoi confronti”.