Dati storici, zone d’ombra e nuove opzioni: come Carabinieri e Finanza leggono la malavita in Valle
Ogni giornalista che è stato in uffici investigativi delle forze dell’ordine, ed ha potuto parlare con chi sta dietro quelle scrivanie, sa bene che la domanda “ma allora, la criminalità organizzata esiste in Valle d’Aosta?” è immancabilmente destinata a deludere le aspettative di chi la pone. E’ così perché quell’interrogativo non si esaurisce in un “sì” o in un “no”, risposte che piacciono molto per la loro assolutezza a chi di mestiere racconta una realtà e predilige, spesso per comodità, concetti definitivi. E’ così perché ‘Ndrangheta e sistemi malavitosi affini sono come un liquido che prende la forma del recipiente in cui viene versato e la Valle d’Aosta, per diversi motivi (non ultimi morfologia ed economia), è una bottiglia piuttosto unica nel suo genere in Italia.
Il fatto che non scorra del sangue, in omicidi e altri fatti violenti classici delle regioni dove le organizzazioni criminali sono nate, non è sufficiente a dichiararne esente il territorio. Di contro, però, nemmeno la presenza di un Casinò (con tutti gli interessi che classicamente una casa da gioco calamita) e di risorse economiche, soprattutto pubbliche, meno aggredite dalla crisi che altrove, consente di per sé di ammettere implicitamente che i tentacoli della “Piovra” avvolgano la Valle. Un “anfratto” del quale i sodalizi delinquenziali – cresciuti a livello esponenziale nella capacità di elaborazione – sono coscienti e che usano a loro vantaggio in un esercizio magistrale di camaleontismo.
E’ per questo che “sì” e “no”, discutendo del tema, aumentano in relatività rispetto al linguaggio corrente. Hanno provato a spiegarlo, lo scorso 16 novembre a Palazzo regionale, i vertici regionali di Carabinieri e Guardia di Finanza auditi dalla prima commissione del Consiglio Valle, presieduta da David Follien, in cerca di “elementi conoscitivi in ordine al fenomeno delle infiltrazioni della criminalità organizzata” in quest’angolo estremo di nord-ovest.
Era passato poco meno di un mese dall’“allarme” sulla “pax valdôtaine” lanciato ad Aosta dalla presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi, ma gli ufficiali che si presentano ai consiglieri scelgono toni e registro ben diversi: quelli di chi il territorio lo vive direttamente e attraverso gli occhi dei reparti comandati. Ad emergere dal verbale della riunione, che Aostasera.it ha avuto modo di visionare, è infatti un’analisi del fenomeno fatta di dati acquisiti, “zone d’ombra” da illuminare ulteriormente e nuove opzioni, soprattutto di respiro economico, che la “Malavita SpA” potrebbe aver aggiunto al suo arsenale.
Il polso della situazione
Il tenente colonnello Emanuele Caminada, comandante del Gruppo Carabinieri Aosta, parte dalla “massima attenzione” dell’Arma, visto che “comunque esiste, è inutile nasconderlo, la presenza di un substrato culturale favorevole a questo tipo di fenomeno veramente particolare e insidioso”. In linea, il generale di Brigata Raffaele Ditroia, “numero uno” della Guardia di Finanza nella regione, per il quale la questione in Valle “ha assunto delle peculiarità piuttosto singolari rispetto al resto del panorama nazionale”, soprattutto nel paragone con le realtà che “hanno una grossa infiltrazione avvertita nel senso di presenza di controllo del territorio”.
L’esistenza di un “locale” di ‘Ndrangheta
Sul punto, vale a dire sulla presenza in terra valdostana di un’entità organica della struttura criminale calabrese (il termine “locale” si riferisce sia al luogo di riunione degli affiliati, sia ad un ramo dell’organizzazione), l’ufficiale dei Carabinieri registra “un’anomalia”. Dall’“operazione Minotauro” (condotta dall’Arma nel 2011, su infiltrazioni di ‘Ndrangheta nella provincia di Torino) è spuntata infatti un’intercettazione ambientale “in cui c’è un elenco di vari locali” e “si fa riferimento” a quello di Aosta. Da questa traccia, però, non sono giunti riscontri. Un sorvegliato speciale che è stato oggetto di approfondimenti, infatti, è risultato far parte “del locale di Ivrea”. Al momento, “elementi oggettivi che dimostrino effettivamente” una “cellula” ‘ndranghetista tra le montagne per gli investigatori non ve ne sono.
Gli accadimenti recenti
Facendo “un excursus degli ultimi dodici mesi”, il tenente colonnello dell’Arma individua “due episodi particolarmente gravi” in grado di far presumere “un’attività a monte delittuosa organizzata”. Si tratta degli incendi che hanno interessato quattro vetture nel parcheggio di un ristorante a Teppe di Quart (il 12 maggio) e una falegnameria a Charvensod (il 15 settembre). Nel primo caso, il presunto responsabile è stato individuato ed arrestato in quindici giorni (il 67enne aostano Carmine Amato, già in carcere in passato per usura, è attualmente a processo), mentre nell’altro “abbiamo appurato che, in quel contesto, non vi era assolutamente un interesse della criminalità organizzata o, comunque, personaggi legati a quel mondo”.
Dal punto di vista delle Fiamme gialle, ovviamente più orientato al versante economico-finanziario, perché il crimine organizzato parla con le armi, ma vive grazie ai soldi, non sono stati riscontrati, nel periodo trascorso dalla precedente audizione, allarmi legati ai “reati spia” classici. “Non abbiamo, qui in Valle d’Aosta, il fenomeno estorsivo a livello d’imprenditori – ha detto il generale Ditroia – e anche l’usura rimane piuttosto limitata”. Ad essere ancora più precisi, “qualche attività sull’usura l’abbiamo fatta, ma riguarda elementi che sono svincolati da organizzazioni criminali”, trattandosi essenzialmente di prestaslodi orbitanti attorno al Casinò.
I canali d’infiltrazione tradizionali
La parola chiave è “monitoraggio”. I Carabinieri lo attuano, a livello metodologico, anche attraverso il confronto “con i reparti della Calabria” dell’Arma. Un riferimento che il tenente colonnello Caminada compie precisando che “l’equazione calabrese = ‘ndranghetista è assolutamente fuori luogo e non mi piace, però, è indubbio che, comunque, un trenta per cento delle attività investigative pregresse hanno dimostrato che questo legame con la madrepatria, con la regione di appartenenza, esiste, è forte”. Nei casi in cui è emerso, lo si è riscontrato “soprattutto, anche tra i giovani” ed è proprio questo “sicuramente un aspetto che ci deve far riflettere”.
Detto questo, sotto la lente d’ingrandimento dell’Arma finiscono “in primis”, quale possibile terreno d’infiltrazione del tessuto economico, gli appalti, non solo quelli esperiti da enti pubblici. Il controllo non è solo formale, ma attuato con l’“attività sul campo”, perché è quella “che ci dà i segnali”. A livello preliminare, i militari appurano, rispetto alle opere (e alle parti) coinvolte, “chi sono effettivamente, se c’è un contratto, o un nolo a freddo, o un nolo a caldo, il servizio di guardiania a chi viene dedicato, se sono sempre gli stessi soggetti; chi sono i fornitori”.
Il grosso del lavoro, però, avviene una volta proceduto all’aggiudicazione, “perché lì, spesso e volentieri, le cose cambiano”. L’obiettivo diventa sincerarsi “se effettivamente quegli attori, che si sono presentati, sono gli stessi”, giacché è il momento in cui “veramente uno percepisce se c’è qualcosa di anomalo”. Tali verifiche riescono ad essere svolte con capillarità, considerato che le opere significative sono note (ed anche le più redditizie ed appetite dalla criminalità organizzata). Ad oggi “non vi è traccia” che questo frangente dell’economia valdostana sia sotto attacco malavitoso.
Qualche difficoltà in più viene però registrata dall’Arma a permeare a livello informativo quando la portata degli interventi da indagare si riduce, passando ad esempio alla ristrutturazione di appartamenti o di locali. In quest’ambito professional-imprenditoriale, stante anche l’assenza di segnali giunti direttamente sinora agli inquirenti, “il sospetto che vada tutto quanto bene è lecito e, fino a prova contraria, accettabile”. L’osservazione, che sul piano dell’interesse investigativo vede spiccare i settori edile ed ortofrutticolo, ha però portato ad un’annotazione riguardante la piccola imprenditoria. “Non tutti quanti – ha spiegato il comandante Caminada – riescono a lavorare e ci sono coloro che lavorano di più, rispetto ad altri che lavorano di meno, nonostante i prezzi siano abbastanza concorrenziali in tutto questo settore”.
La Guardia di finanza, invece, a livello di canali tradizionali d’infiltrazione tiene d’occhio il riciclaggio, attività basilare nell’autofinanziamento delle organizzazioni criminali, definita peraltro dal generale Ditroia “molto difficile da dimostrare”. Il perché è presto spiegato: “bisogna individuare il reato che fornisce dei proventi, quindi, tipicamente l’attività criminale in senso stretto, per cui intendiamo il traffico di stupefacenti, piuttosto che il traffico di armi o altri fenomeni criminali, e individuare la provenienza di questi proventi illeciti che vengono reimmessi nell’economia”.
Senza arrivare alle attività che originano i fondi da riciclare, “è difficile poi individuare l’immissione dei proventi illeciti nell’economia”. Se “è evidente” che c’è del “denaro sporco che arriva in Valle”, giunge però “per reati commessi altrove”. Oltretutto, sempre meno ne arriva “attraverso i canali ufficiali”, perché ormai “sono iper-monitorati”, in ragione degli obblighi di segnalazione delle operazioni sospette posti a carico di intermediari finanziari e banche. Le trame di quei soldi sono, oggi ed anche in Valle d’Aosta, sempre più delle altre.
Le nuove rotte dei capitali illeciti
Su una ipotesi è al lavoro la Guardia di finanza, impegnata nella verifica di eventuali casi, nella regione, di “sovrafatturazione”, cioè di “attività commerciali che probabilmente avrebbero degli introiti inferiori a quelli che vengono dichiarati”, così da “giustificare l’arrivo di nuovi capitali o, comunque, l’allargamento dell’attività economica esercitata dall’azienda”. Una pratica che non va immaginata solo per grandi realtà imprenditoriali, ma anche per attività come ristoranti ed esercizi commerciali, dove può essere attuato “con il rilascio di un numero di ricevute fiscali molto superiore a quello dei frequentatori del locale stesso”.
Un’altro fenomeno in via di valutazione in Valle dai finanzieri, come sensibile rispetto all'infiltrazione, è quello del cosiddetto “autoriciclaggio”, in cui “l’autore del reato” direttamente “si arricchisce e utilizza i proventi illeciti per se stesso o per persone vicine”. Una fattispecie tutto sommato complessa, sia nell’individuazione del responsabile, sia in assenza di “una giurisprudenza consolidata”, sia perché “l’interpretazione di questa norma, a livello nazionale, non è facilissima”.
Restare nell’ombra
Se l’“isola felice” è un presupposto non più attuale per le Istituzioni e per chi contro il crimine organizzato combatte con indosso una divisa, per i malavitosi, in realtà, è una rappresentazione della nostra regione affascinante e del tutto conveniente. Per loro, ha spiegato il tenente colonnello Caminada, “meno attenzione si crea e più possibilità ci sono di poter effettuare affari e soprattutto di poter lavorare in tranquillità”.
Quello che i Carabinieri hanno potuto constatare è che in questo lembo d’Italia “se è presente”, il crimine organizzato, “lo è in modo assolutamente subdolo e sottotraccia”. Una sensazione rafforzata dal fatto che, in Valle, l’attività investigativa ha aperto squarci sui “passaggi di alcuni latitanti”, che hanno “favorito la non evidenza di alcuni comportamenti proprio per permette a questi soggetti di poter usufruire di un periodo di latitanza tranquillo, lontano da occhi e da attenzioni particolari”. E per consentire al liquido di prendere la forma del recipiente in cui veniva versato.