“Guerra sul whiskey”, la Savio di Châtillon perde la battaglia con l’americana Jack Daniel’s

Il colosso statunitense dei distillati - assieme al suo distributore per l’Italia, la Martini & Rossi - ha portato in giudizio l’azienda di Châtillon. Quest’ultima, ha resistito fino alla Suprema corte, finendo però con il soccombere.
Cronaca

Dopo tre gradi di giudizio ed oltre cinque anni di udienze, Tennessee batte Valle d’Aosta 3 a 1. Oggetto del contendere: del whiskey. Non uno qualsiasi, però. Quello associato nell’immaginario collettivo allo Stato di Nashville e Memphis, quello prodotto dalla Jack Daniel’s. Sì, perché il colosso statunitense dei distillati – assieme al suo distributore per l’Italia, la “Martini & Rossi” – ha portato in giudizio un’azienda con sede a Châtillon, la “Savio Srl”. Quest’ultima, ha resistito fino alla Suprema corte, finendo però con il soccombere sulle ragioni scatenanti della causa e vedendo riconosciute le sue ragioni solo su un aspetto, relativo al risarcimento dovuto alle controparti.

La vicenda ha inizio quando gli anni 2000 erano iniziati da quasi un decennio. Sul mercato valdostano circolano delle bottiglie di Jack Daniel’s che attirano le attenzioni del produttore di Lynchburg. Rettangolari sono rettangolari, proprio come quelle cui il distillato dedicato a Jasper Newton Daniel deve il suo successo mondiale. Tuttavia, non arrivano dalla catena di distribuzione italiana, bensì da Usa, Isole Vergini, Australia, Ecuador e Colombia. La società risale quindi alla “Savio Srl” e – sostenendo che avesse importato parallelamente quelle bottiglie, poi commerciate senza autorizzazione – la chiama a comparire al Tribunale di Aosta, chiedendo al giudice di accertare la contraffazione del marchio e la concorrenza sleale.

La ditta di Châtillon eccepisce sia nel merito (niente di contraffatto, semmai solo una questione di legittimità dell’importazione delle bottiglie “incriminate”), sia sulla legittimità della procura affidata dalla “Jack Daniel’s Properties Inc.” e dalla “Martini & Rossi” ai suoi difensori, gli avvocati Giovanni Guglielmetti e Piergiorgio Martinet. Su questo secondo aspetto, il verdetto sorride alla “Savio Srl”: i due legali vengono condannati, in proprio, al pagamento delle spese processuali. Sull’aspetto principale, però, proprio come avrebbero detto in Tennessee: “no way”. La domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento dei danni da concorrenza sleale, avanzata dall’azienda valdostana, viene rigettata. La teoria per cui gli statunitensi si sono rivolti al tribunale è fondata.

Una sentenza che viene appellata dagli avvocati, da un canto, e dalla “Jack Daniel’s” e dalla “Martini & Rossi” dall’altro. La “Savio Srl” resiste e ripropone la domanda riconvezionale. La Corte d’Appello di Torino si esprime il 9 settembre 2010 e, per la ditta della media valle, è un bicchiere più amaro di un liquore invecchiato per cinquant’anni. Riconvenzionale assorbita, i due legali vengono assolti da ogni responsabilità per le spese di lite e la società valdostana è inibita a commercializzare nella Comunità europea, e nello Spazio economico europeo, whiskey Jack Daniel’s importato da paesi extraeuropei.

Non basta: per il giudice di secondo grado si configura concorrenza sleale per contraffazione del marchio, quindi l’azienda di Châtillon deve risarcire alle due “big” i danni cagionati. Ancora, il magistrato d’appello dispone la distruzione dei prodotti in possesso della “Savio”, che si vede pure addebitare le spese per il doppio grado di giudizio.

Una batosta tale da non lasciare scelta ai valdostani: impugnano la sentenza, facendo ricorso in Cassazione. I motivi alla base dell’opposizione depositata dagli avvocati Giuseppe Cerulli Irelli, Gabriele Cuonzo e Luca Trevisan sono cinque ed attengono la violazione e la falsa applicazione, da parte dei giudici torinesi, di varie norme su marchi, concorrenza e contraffazione.

La sentenza della Cassazione, pubblicata l’altro ieri, martedì 21 giugno, dichiara infondati tre di quei motivi. Di più, qualifica come illecita la condotta della “Savio”, in virtù “della importazione parallela e della successiva immissione in commercio del prodotto, in difetto di consenso del titolare del marchio”. Però, per la Suprema Corte, il verdetto dei giudici d’appello è “manchevole”, per aver omesso di “dar conto del previo accertamento circa l’ontologica esistenza di un danno in simil modo risarcibile”.

Detto come al bar: i magistrati torinesi hanno provato che i produttori del Tennessee, e il loro distributore italiano, siano davvero stati danneggiati dall’“import made in VdA”? No. O meglio, lo hanno fatto solo offrendo come prova la presenza “nei magazzini della Savio di migliaia di casse di prodotto illecitamente importato in violazione dei diritti di privativa”, indicando un ricavo ottenuto in sette mesi di commercializzazione appena (stando ai valori presenti sulle fatture) e dando conto dell’avvenuta vendita “abusiva di simile prodotto dall’anno 1994”. Per la Cassazione, tutto ciò non è sufficiente: trattasi di elementi potenziali, non di quantificazione del danno effettivo. Tanto basta a ritenere fondato il quarto motivo, fatto che comporta l’assorbimento del quinto.

Pertanto, sentenza cassata in quella parte e rinvio della questione ad una diversa sezione della Corte d’appello di Torino, chiamata a pronunciarsi nuovamente in merito, al fine “di dar conto dell’effettiva esistenza di danno patito da Jack Daniel’s Properties e Martini & Rossi, eventualmente distinto per entità e tipologia e liquidabile”. Al giudice del rinvio viene rimessa anche “l’individuazione del più appropriato criterio di liquidazione”.

La Cassazione si esprime pure sulla questione dei due difensori: la “Savio” deve riconoscergli le spese d’appello, mentre per quanto riguarda il terzo ed ultimo grado, sarà il giudice cui tornerà il fascicolo a mettere una parola definitiva. Insomma, la partita tra Valle d’Aosta e Tennessee sul whisky non è finita, ma comunque vada il tempo supplementare in programma a Torino, ai valligiani resterà solo il goal della staffa.

 

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