L’estensione della legge sull’autonomia differenziata alle regioni a Statuto speciale è incostituzionale

E’ uno dei sette profili di incostituzionalità sollevati dalla Consulta nell’esaminare i ricorsi contro la legge di Puglia, Toscana, Sardegna e Campania. La Corte costituzionale sollecita l’intervento del Parlamento per colmare il vuoto legislativo.
Il Palazzo della Corte Costituzionale
Cronaca

La legge sull’autonomia differenziata delle regioni ordinarie (la n. 86 del 2024, in vigore dallo scorso 13 luglio) non è interamente incostituzionale, ma lo sono sette suoi profili specifici. E’ quanto ha stabilito ieri, giovedì 14 novembre, la Corte costituzionale, nell’esaminare i ricorsi delle regioni che avevano impugnato la norma (Puglia, Toscana, Sardegna e Campania), assieme alle difese del Presidente del Consiglio dei ministri e gli atti “in opposizione” ai ricorsi depositati da Lombardia, Piemonte e Veneto.

Il richiamo sulle autonomie speciali

Tra i profili ravvisati incostituzionali vi è anche quello relativo all’applicazione – stabilita con un comma nelle disposizioni finali della legge – delle possibilità previste dalla norma alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano. Così facendo, secondo i giudici costituzionali, si estenderebbe alle autonomie speciali il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione.

Esso riguarda, invece, le regioni a statuto ordinario, mentre le speciali “per ottenere maggiori forme di autonomia – si legge nel comunicato stampa della Corte – possono ricorrere alle procedure previste dai loro Statuti speciali”. In sostanza, viene ribadito il 1° comma dell’articolo 116, per cui Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige/Südtirol e Valle d’Aosta “dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale”.

Salvaguardare la sussidiarietà

Alla base dei principali richiami operati dalla Corte vi è il fatto che “la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo” non debba “corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico”, ma “debba avvenire in funzione del bene comune della società e a tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione”. A tal fine, è “il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni”.

Le principali incostituzionalità

Da ciò discendono i due principali profili di incostituzionalità della legge ravvisati dalla Consulta. Il primo riguarda la possibilità che “l’intesa tra lo Stato e la regione e la successiva legge di differenziazione trasferiscano materie o ambiti di materie, laddove la Corte ritiene che la devoluzione debba riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e debba essere giustificata, in relazione alla singola regione, alla luce del richiamato principio di sussidiarietà”.

L’altro rilievo concerne “il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (LEP) priva di idonei criteri direttivi”, con la conseguenza che “la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del Governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento”. Allo stesso modo, per i giudici è incostituzionale “la la previsione che sia un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (dPCm) a determinare l’aggiornamento dei LEP”.

I rischi di alcune previsioni normative

La lettura del comunicato della Corte costituzionale porta alla luce poi aspetti che non è errato definire paradossali, considerando i temi storicamente propri delle forze di centro-destra che hanno varato la legge. Per la Consulta, non risponde ai dettami della carta fondamentale “la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito”.

In base a tale disposizione, sottolinea la Corte, “potrebbero essere premiate proprio le regioni inefficienti, che – dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite – non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni”. La Consulta sottolinea poi in rosso anche “la facoltatività, piuttosto che la doverosità, per le regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica”.

Il rebus per la Premier

Insomma, la decisione della Corte apre un bel rebus per Giorgia Meloni, sul piano giuridico, ma prima ancora su quello politico, alla luce delle differenti sensibilità sul tema esistenti nella compagine di Governo. Non è infatti chiaro se, la trattativa tra Stato e alcune Regioni che avevano già avanzato la richiesta di delegare alcune materie si fermi, o meno. Così come dal solo comunicato della Corte (occorrerà attendere la sentenza), non si ricava se la legge sia “paralizzata” o possa avere ancora applicazione nelle parti non incostituzionali. Su questo, potrebbe però intervenire l’Esecutivo, stabilendo una “pausa”.

Non aiuta la risoluzione del rebus nemmeno che, secondo la Consulta “spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate” dalle regioni ricorrenti, “nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge”. La logica del richiamo è di un intervento rapido, dopo la pubblicazione della sentenza, ma esiste più di un precedente di inviti della Consulta all’intervento parlamentare rimasti a lungo senza seguito.

Una risposta

  1. E qualche ripetizione di diritto costituzionale a questo ignorantissimo governo di centro dx?

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