L’intimidazione? All’ordine del giorno per la ‘Ndrangheta VdA

Nelle 920 pagine dell’ordinanza che ha disposto le misure cautelari a carico di organizzatori, promotori e fiancheggiatori della “locale” valdostana, testimoniati anche episodi di pressione con dinamiche tipiche del crimine organizzato.
fiammiferi
Cronaca

Direzione Distrettuale Antimafia e Carabinieri hanno chiamato quella scattata alle 3 della notte di ieri “Operazione Geenna”, dal nome di una piccola valle sul versante sud del Monte Sinai. Siamo a sud-ovest di Gerusalemme e, per le sacre scritture, il luogo è carico di significati: maledetto dal re Giosia (perché sede di un culto idolatrico basato sul sacrificio di bambini) è stato destinato a immondezzaio della città, costantemente arso dal fuoco. Per la presenza delle fiamme, la valle nel Vangelo è presa a simbolo dell’inferno e, in altri testi, a luogo di punizione.

Uno scenario a dir poco tormentato, ma a leggere le 920 pagine dell’ordinanza con cui il Gip del Tribunale di Torino Silvia Salvadori ha disposto gli arresti per le sedici persone ritenute aver organizzato, promosso e fiancheggiato una “locale” di ‘Ndrangheta in Valle d’Aosta – dando per la prima volta sbocco giudiziario ad un’ipotesi su cui le forze dell’ordine (in particolare l’Arma) avevano raccolto elementi sin dalla fine degli anni ’90 – gli elementi di inquietudine sovrapponibili a quelli dello scenario ai piedi del Sinai non mancano.

A partire da una condotta considerata dagli inquirenti indicativa dell’organizzazione nella regione: l’uso del metodo intimidatorio. Negli oltre quattro anni d’indagini, scattati a dicembre 2014, i militari del Gruppo Aosta (rivalutando anche le indicazioni emerse da inchieste precedenti, come “Lenzuolo”, risalente all’inizio degli anni duemila, e le successive “Tempus Venit” e “Hybris”) hanno raccolto “numerose risultanze”, che le carte dell’inchiesta ripercorrono nel dettaglio.

“Io l’ho fatto per la famiglia mia”

Uno degli episodi citati risale a giugno 2015 ed è valutato come dimostrativo “di dinamiche interne alle due fazioni tipiche della ‘ndrangheta, in cui un mero litigio tra ‘ragazzi’ provoca reciproche pretese di rispettabilità tali da muovere la stessa ‘locale’ di San Luca al fine di comporre gli attriti”. In sostanza, a seguito di una lite ed un pestaggio in cui il nipote di Antonio Raso avrebbe procurato delle lesioni al figlio di Salvatore Filice (il primo arrestato ieri), quest’ultimo chiede al giovane coinvolto e al suo patrigno di “risarcirlo” con 10mila euro.

Per “risolvere il problema”, i destinatari della richiesta interpellano lo zio acquisito del ragazzo, che coinvolge gli altri componenti del “locale”. I fatti arrivano lontano, perché ne vengono “informati anche i referenti calabresi sia della compagine ‘ndranghetista aostana, sia di Salvatore Filice (originario di Petilia Policastro, già coinvolto nel processo su due gruppi belligeranti per la gestione di un “night club” a Châtillon, ndr.)” e “si sono mossi personaggi influenti che hanno rispettato le regole della consorteria mafiosa”. Le “fazioni” si incontrano più volte. In un’occasione, Filice afferma: “non mi voglio legare con nessuno, non mi voglio far vedere con Tonino con voi, con quello perché? Perché poi qua, siccome siamo quattro gatti e cominciano ad associare… già tra di noi”.

Per gli inquirenti, un’affermazione dettata dalla consapevolezza dell’uomo (indagato, al riguardo, per tentata estorsione) di “trovarsi di fronte ad un appartenente alla criminalità calabrese”. In un altro frangente, commentando un incontro con gli “avversari”, Marco Fabrizio Di Donato (presunto responsabile della “locale” aostana) risponde al ringraziamento di Antonio Raso, per averlo accompagnato, con “non scherzare neanche, io l’ho fatto per la famiglia mia”. Peccato, annota il Gip, che “tra i due non esiste alcun rapporto familiare”. L’espressione viene quindi riferita “ad una comunanza di interessi” costituita “dall’appartenenza al medesimo sodalizio criminale”.

Problemi? “Vai in Calabria”

Nell’ottobre 2015, una violenta lite (seguita da botte) si accende in strada ad Aosta tra Francesco Mammoliti (“partecipe” della “locale” valdostana, anch’egli in carcere da ieri) e un’altra persona. Francesco, venuto in possesso di alcuni verbali, aveva accusato l’altro “di essere stato un infame” per le dichiarazioni rese in un interrogatorio di un’indagine su una tentata estorsione, in cui era stato coinvolto. “Se hai qualche problema vai in Calabria, vai da mio zio”, gli intima il suo contendente in un incontro successivo. Il riferimento è a un“personaggio legato” ad una cosca calabrese, segnala il Gip.

Successivamente, i due si riconciliano, ma l’ordinanza sottolinea lo “schema seguito per affrontare le tensioni” sorte essere tipico della ‘Ndrangheta, giacché include “l’invio di ‘ambasciate’ in Calabria per informare dell’accaduto i propri referenti, l’organizzazione “di incontri finalizzati a discutere della questione” (spendendo “il nome di cosche e di singoli esponenti della criminalità organizzata calabrese per sondare i rispettivi rapporti di forza”), nonché “la mobilitazione di altri sodali quali pacificatori”.

“Come lo finisci il locale te lo svampo…”

Il titolare di un noto ristorante di Aosta, la pizzeria “La Grotta Azzurra”, è poi al centro di un altro caso d’intimidazione saltato agli occhi degli inquirenti. Nel gennaio 2016, l’uomo intratteneva “stretti rapporti di amicizia tanto con” Antonio Raso, quanto con Marco Fabrizio Di Donato. Trovatosi a ristrutturare la sede di una futura attività a Sarre si rivolge ad uno studio d’architettura di fiducia, che avrebbe affidato i lavori ad artigiani di origine calabresi residenti in Valle.

Di Donato viene a saperlo e “consiglia” all’amico di farsi fare un preventivo da un professionista da lui più gradito. Dopodiché, si rivolge a uno dei futuri “subappaltatori”, dicendogli che l’architetto scelto “non avrebbe avuto i lavori”, cosa che in effetti poi accade, come confermato da un altro degli artigiani potenzialmente selezionati. L’epilogo della questione è ricavato da un’intercettazione telefonica, in cui il presunto capo della “locale” aostana racconta al suo interlocutore che l’architetto originariamente individuato ha rinfacciato al committente di avere dato “i lavori ai tuoi amici perché sono della ‘ndrangheta”.

Quale argomento avrebbe fatto cambiare idea al titolare della pizzeria aostana? La risposta è in una delle migliaia di intercettazioni ambientali dei Carabinieri del Reparto Operativo, comandato dal Tenente Colonnello Maurizio Pinardi. Marco Fabrizio Di Donato parla con un commercialista (che l’ordinanza definisce “soggetto vicino al mondo criminale calabrese”), riferendogli di avere detto all’amico: “sai cosa c’è? Se vengo a sapere che ti fai fare no il lavoro, il preventivo…” da una delle ditte scelte inizialmente “come lo finisci il locale te lo svampo…”. La valle c’è, l’ardere del fuoco viene fatto baluginare, l’inquietudine non manca. In una parola, Geenna.

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