Il processo all’ex pm di Aosta, Pasquale Longarini, arriverà al terzo grado di giudizio. La procura generale di Milano ha infatti depositato ricorso in Cassazione contro l’assoluzione del magistrato, pronunciata lo scorso 5 novembre dalla Corte d’Appello meneghina “perché il fatto non sussiste”. Per Longarini – investito dal ciclone giudiziario nel 2017, quando era Procuratore capo facente funzioni nel capoluogo valdostano, ed oggi in servizio ad Imperia quale giudice civile – era stata la conferma del verdetto assolutorio pronunciato al termine del procedimento di primo grado, celebrato con rito abbreviato dinanzi al Gup Guido Salvini e chiusosi il 9 aprile 2019.
Longarini era accusato di induzione indebita a dare o promettere utilità, rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento. Con l’appello si è concluso l’esame di merito del procedimento e il ricorso in Cassazione può essere intentato solo per motivi di legittimità. Pertanto, la Suprema Corte compirà una valutazione sulla eventuale applicazione erronea della legge sollevata dalla Procura generale nell’impugnazione alla sentenza d’appello. Co-imputati con l’ex pm, ed a loro volta assolti, erano l’imprenditore alimentare Gerardo Cuomo e l’albergatore Sergio Barathier.
Secondo la Corte d’Appello, nelle motivazioni alla sentenza depositate lo scorso febbraio, il processo al magistrato è stato “originato da quanto è stato riferito, contrariamente al vero”, da un investigatore, il tenente colonnello dei Carabinieri Samuele Sighinolfi, al pm Roberto Pellicano, che aveva sentito il militare durante le indagini (condotte dalla Procura di Milano, perché competente a giudicare i magistrati del distretto). Per i giudici di secondo grado, la tesi d’accusa (sull’accusa di favoreggiamento) per cui Longarini avrebbe aiutato Cuomo (titolare del “Caseificio Valdostano) ad “eludere le investigazioni della Dda in materia di criminalità organizzata”, rivelandogli “di essere sottoposto ad intercettazioni telefoniche”, non teneva conto del fatto che l’imprenditore “non era mai stato iscritto nel registro degli indagati”.
Sottoporlo ad intercettazioni serviva, invece, a “comprendere le ragioni degli incontri e dei contatti” che Giuseppe Nirta (pluripregiudicato calabrese 52enne ucciso in Spagna nel giugno 2017) intratteneva con lui, ma l’interesse investigativo sul sanlucota rimasto a terra in un agguato ad oggi senza soluzione era venuto meno dopo il suo omicidio. La rivelazione di segreto d’ufficio, invece, era venuta meno, al termine del processo di secondo grado, perché il momento in cui Longarini avrebbe appreso delle intercettazioni a carico di Cuomo era stato collocato temporalmente dall’ufficiale in maniera “del tutto inconciliabile” con l’esito di alcune indagini difensive svolte dagli avvocati di Longarini.
Infine, quanto all’imputazione di induzione indebita, la sentenza di appello ritiene la telefonata di Longarini ad un componente dello staff di Barathier (agli occhi della procura una “pressione” sull’albergatore, su cui l’allora pm stava indagando per motivi fiscali, per favorire l’amico Cuomo, facendogli ottenere una fornitura) “al di sotto della soglia dell’abuso, sostanziandosi in una segnalazione, in una indicazione e cioè che il contratto con” il titolare del Caseificio “meritasse un esito positivo in quanto questi era un imprenditore affidabile e con prodotti di qualità”. La parola, ora, passa alla Suprema Corte.