Per certi versi, Vinicio Capossela, è una sorta di “miracolo ambulante”. Lo è anzitutto perché, in un panorama musicale annacquato come quello italiano, è tra i pochi che riesce a conciliare le grandi platee, i piccoli teatri, la città, la provincia, il mare e le montagne.
Montagne che, parole dello stesso Capossela ieri sera allo Splendor di Aosta per la Saison Culturelle, ama molto, come l’inverno e come il mese dicembre – lui che tanto scrive del mare, e delle corde secche delle navi sotto la salsedine ed il sole – e la neve, che cade finta sul palco e vera all’esterno del teatro. “Una neve ‘complice’ – dice al microfono – che vi permetterà di tornare a casa tranquilli stasera”.
E nella sua consueta parata laica di “Santi” – San Vito, San Nicola, San Paolo – non manca un omaggio alla città che lo ospita per una sera: “Ho sempre amato l’orso, voi avete anche Sant’Orso, che vi protegge dal mal di schiena”, ma non mancano ricordi “d’antan”, ma ben freschi in parte della platea: “Una volta abbiamo suonato ad Aosta – racconta –, diluviava, e abbiamo continuato a suonare”. Volendo c’è anche del sarcasmo, ma forse inconsapevole: “Una volta abbiamo suonato anche a Saint-Vincent, ma non abbiamo vinto nessun premio”. Risate un po’ sommesse dal pubblico, ché a Saint-Vincent di premi ormai non se ne vedono girare molti.
Dietro, due ore e mezza di concerto che abbracciano integralmente i quasi 27 anni di carriera di Capossela, che da cantautore con riferimenti ben precisi – Tom Waits su tutti – è passato dalle “Canzoni a manovella” (di diciassette anni fa, e mai titolo fu più azzeccato) ad uno spettacolo totalizzante, con il gioco di ombre di Anusc Castiglioni a volte pirotecnico, a volte poetico ma sempre immerso perfettamente nelle atmosfere sonore, a farla da padrone.
Cambio di canzoni, cambio di cappelli ed un doppio velo nero – uno tra il pubblico ed il cantautore ed uno tra lui e la band alle spalle – su cui si proiettano i giochi di luce di Castiglioni e che, da “Velo di Maya” illusorio al punto giusto in realtà svela tutta la spettacolarità delle canzoni di Capossela, per un concerto che è “teatro” per davvero, o che, addirittura, potrebbe essere definito quasi un “Vaudeville 2.0”.
Ad Aosta fa freddo, a maggior ragione a dicembre, ma Capossela riesce in un miracolo ulteriore: lo Splendor invece è caldo, è gremito in ogni ordine di posto, e lo osserva e lo ascolta suonare con incanto e ammirazione. A volte, e si sente dal “respiro”, evidentemente meravigliato. L’età non conta, la platea è assai variegata, conta solo quello che sta succedendo in scena. Stupore, ombre e spaventi. Spaventi sani, come dice lo stesso Vinicio, perché “Lo spavento è bello, perché è artigianale. La paura, invece, quella è ‘industriale’”. E paura, quella, nessuno l’ha avuta. Non ieri sera.