Una panchina su cui sedersi, ma anche a cui aggrapparsi: la fotografia della 67ima edizione del Teatro Popolare valdostano più famoso è questa, il banc public da cui l’inossidabile coppia Celesia-Baravex, da ormai 4 anni, esalta la più tipica tradizione di stand up comedy al servizio del francoprovenzale. Nessun orpello, nessuna scenografia, solo una panchina, il fedelissimo cane Tyson, un giornale che non riesce mai a essere letto e due comicità complementari e travolgenti che con un ritmo e un piglio sorprendenti hanno trascinato e condotto lo Charaban in porto per questo 2025.
La coppia è rodata e il risultato è garantito, ma l’effetto è quello di una eclissi lunare, dove il duo oscura in maniera importante lo spettacolo vero: le pièce stentano a decollare e non sembrano riuscire ad avere una storia circolare in cui la trama classica dell’equilibrio rotto e poi risolto stia in piedi. La prima messa in scena, Silven vu se marié (scritta da Laura Grivon), è forse l’unica che presenta una struttura tradizionale e per questo riesce a tirare le fila di una storia molto classica che vede l’opposizione di una suocera al matrimonio del figlio con una nuora sgradita. Prova magistrale come sempre di Elena Martinetto e Manuel Baravex, che hanno quella scintilla per cui la mimica e i gesti basterebbero all’attore per reggere un’intera pièce muta. Fortunatamente, però, i dialoghi ci sono e fanno ridere, perché la comicità non manca in nessun atto della serata, solo che la struttura ne esce indebolita. Anche Christian Brunod e Wanner Orsi sono un altro duo degno di nota della commedia della Grivon e sono da apprezzare anche l’utilizzo di parte della colonna sonora di Fantozzi e l’apertura a temi come l’intelligenza artificiale.

Eun esamen obleudzà, di Flavio Albaney, ha un potenziale enorme, ma si perde attorcigliandosi sulla forma anziché andare in profondità, e così, quando la trama mette a disposizione 5 consiglieri freschi di nomina in Regione, purtroppo l’eccessiva caricatura fa passare in secondo piano il senso logico dell’impianto narrativo. La storia c’è, ma in realtà non c’è, o forse viene liquidata in poco tempo per far spazio a qualcosa che nella realtà ritorna sempre come un mantra (ma forse non sempre è vero): tutti i politici sono capre e tutti sono uguali agli altri, anche se qualcuno sembra salvarsi. Molto bravo Joel Albaney, moderno Mike Bongiorno alle prese con la sbadata valletta Chanel (Alice Gemelli).

E quando arriva il momento della terza pièce, scritta da Andrea Cavagnet (attore al debutto come scrittore), si vede che la bravura sta di casa tra gli attori della compagnia teatrale, ma forse non ci si può affidare solo a questa. La storia mette in scena il punto di vista dei cani che, ognuno con un padrone diverso, devono far fronte a delle vite che non sempre corrispondono a quello che vorrebbero. L’idea è perfetta, l’intuizione di Cavagnet è giusta, ma non è solida: la pièce è un susseguirsi di sketch slegati, accomunati dal malessere che gli animali vivono, ma che non riesce a sfociare in un finale logico o in una morale convincente. Menzione speciale per Pierre André Avoyer, nipote e figlio d’arte che finalmente ha una parte un po’ più importante e riesce a dimostrare il suo valore; da apprezzare Wanner Orsi e Christian Brunod ancora una volta insieme e questa volta con orecchie e code, ma sempre validi.

Mentre la scena, carica di talento e bravura (tra gli attori e le scenografie non si può dire che il biglietto non valga la serata), cerca appigli logici nelle sue pièce, la panchina degli intervalli fa galoppare la fantasia e spalanca le porte alle risate del pubblico. Nessuno viene risparmiato, perché è così che funziona l’irriverenza: politici regionali, ex preti, candidati Sindaci e neo Sindaci, “Jack lo squartatsat” (il riferimento ai gatti scomparsi a Cogne è esilarante e dura a lungo) e servizi ospedalieri per i gatti finiti nell’occhio del ciclone quest’anno sono solo alcune delle frecce nella faretra del tandem della panchina che usa le parole crociate come un arco da cui scagliare punte affilatissime che fanno ridere e riflettere.
La scrittura è diventata con il tempo un punto debole evidente per il teatro popolare, complice anche la difficoltà di adattare una lingua come il patois al ritmo contemporaneo e al mondo globalizzato: alcune parole sfuggono, altre non si lasciano catturare e la logica di una narrazione spesso deve passare dall’italiano. Ovviamente gli sketch veloci e con scambi solo tra due attori sono una valvola di sfogo per il francoprovenzale che, in poche e affilate battute, ancora riesce a condensare tutta la sua verve e la sua comicità. Che il futuro dello Charaban sia seduto su quella panchina?
