Metti una sera alla Corte di Federico Buffa, Re dello “storytelling”

È andato in scena allo “Splendor” lo spettacolo del giornalista milanese che ha fatto del racconto e della narrazione un format televisivo tutto suo. “Il rigore che non c’era” è una questione di imprese: sportive, ma non solo.
Cultura

Ossimorico Federico Buffa. Prende in mano uno degli ingredienti più vecchi del mondo, il racconto, quello cui un essere umano è confrontato fin da infante con le fiabe, e prima riesce a farne un format televisivo tutto suo, malgrado l’overdose di proposte di cui è vittima il piccolo schermo, poi da chirurgo della parola qual è lo trapianta nel luogo in cui l’immagine passa in secondo piano: il teatro.

Un’impresa. D’altronde, “Il rigore che non c’era” – come si è reso conto il pubblico che nella serata di ieri, venerdì 12 aprile, ha riempito lo “Splendor”, ove lo spettacolo del giornalista sportivo milanese è andato in scena per la “Saison Culturelle” – trae la sua linfa vitale dalle imprese. Sportive, ma non solo. Ed è tutta lì la forza della dimensione teatrale: non costretto dai ritmi e dai cliché della tv, il papà di “Buffa racconta…” può allargare lo sguardo.

Lo fa volare sul mondo, in particolare su quelle terre scolpite nell’animo di chi si nutre da sempre, per lavoro e per passione, degli sport giocati con un pallone rotondo: l’America latina e quella settentrionale. Così, il viaggio da un’ora e quarantacinque minuti circa, unisce Santos a Los Angeles, dal millesimo goal di Pelé all’invenzione del gancio cielo firmata Kareem Abdul-Jabbar, ma passa (anche) per il sanguinoso Perù di Sendero Luminoso e per la notte in cui il tempo si fermò non appena Neil e Buzz calpestarono il suolo lunare.

E devia verso l’isola di Madeira, in cui la signora dos Santos Averio, incinta del quarto figlio, implorò di abortire nel 1984, schiacciata dal peso di un marito etilista, ma un medico obiettore glielo impedì, facendo nascere il bambino che oggi tutti chiamano solo con i suoi due nomi: Cristiano Ronaldo. E arriva pure in Italia, citando l’atletismo funambolico di Eddy Ottoz e accendendo una candela in corso Re Umberto a Torino, ove l’astro di Gigino Meroni venne spento, la sera del 15 ottobre 1967, dal paraurti di una Lancia Appia.

Il tono e lo stile del 59enne milanese sono quelli che i suoi estimatori apprezzano sin dai tempi dalle telecronache su Tv Koper Capodistria: avvolgente ai confini dell’ipnosi il primo ed icastico quanto basta il secondo. L’effetto seduttivo è però incredibilmente amplificato dall’assenza di immagini a corredo della narrazione (in un flash-back delle grandi firme che fecero, in assenza della tv, di necessità virtù, leggasi Biagi e Brera), nonché dall’introduzione di soluzioni sceniche che consolidano ulteriormente l’impatto emotivo dello spettacolo.

La prima è la musica. Facendo da “fil rouge” tra “un rigore che non c’era” e l’altro, il pianoforte di Alessandro Nidi e le canzoni di Jvonne Giò aggiungono fermate all’esplorazione. E non sono indifferenti, visto che la scelta attinge, tra l’altro, a “Que Sera Sera” scritta per Doris Day e a “With A Little Help From My Friends” dei Beatles di Sergeant Pepper’s. Storie nelle storie, quelle di George Best, o di Winston Churchill, perché una volta che apri lo scrigno delle imprese, non sai cosa ci trovi.

Il Re dello “storytelling” Buffa ha poi un abile ciambellano nello “speaker” Marco Caronna, che è anche regista della rappresentazione. Ora lo provoca, ora gli fa da spalla; ora lo schernisce, ora imbraccia la chitarra, in un gioco delle parti che, al momento di uscire dal teatro, mentre l’uomo finito a fare il giornalista dopo gli studi in sociologia e giurisprudenza si concede ai fan nel foyer per foto e strette di mano, lascia un dubbio solo: chissà come sarebbe andata se quel rigore fosse stato fischiato. A volte, però, crogiolarsi nelle perplessità è dolcissimo.

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