L’Antonio Manzini che non t’aspetti, ma che sospetti (viste anche alcune sfumature caratteriali da “Robin Hood de noantri” della sua creatura cartacea Rocco Schiavone), si svela quando la conversazione di ieri, martedì 16 ottobre, sul palco del teatro Splendor, è intavolata da un po’. “Non ti fa ridere – esclama a Piero Valleise, che più volte aveva tentato di allargare lo sguardo della serata, distogliendolo dalla contingenza del vicequestore esiliato in Valle – che ti danno il reddito di cittadinanza, ma ti fai sei anni se compri un ‘Gratta e vinci’?!”.
Da lì al parallelismo con la commedia italiana, il passo è breve: “Ci ha insegnato a sorridere. La battuta più bella de ‘La Grande Guerra’ è quando Alberto Sordi scambia gli austriaci per bergamaschi. Poi li fucilano, ma tu ridi”. Il problema nasce “quando si perde l’ironia”, segnale inequivocabile dell’avvento di “un brutto momento storico”. “Quando vedi Hitler parlare – incalza lo scrittore romano – sembra uno che ha un problema di intestino. Però nessuno rideva e tutti sappiamo cosa accadde dopo”.
Peraltro, nessuno ha riso neanche “quando Renzi parlava inglese”. E ancor più preoccupante è che “non c’è nemmeno più bisogno dell’imitazione”, tanto gli originali appaiono esaustivi. Per questo, alla disperata ricerca di un antidoto, il nuovo capitolo dei romanzi dedicati al funzionario di Polizia più “irregolare” della penisola, l’appena uscito “Fate il vostro gioco”, “è dedicato anche a chi dubita, ma non delle scie chimiche: dell’oggettività dei fatti”. “Quando Giovanardi dice ‘non fare le canne su un poliziotto’… – sibila Manzini – ma scriviti un libro e fanne una serie!”.
Anche perché “primi dirigenti dello Sco (Nda servizio centrale operativo) leggono Schiavone e mi dicono ‘ma magari’. Io mi preoccupo, ma la Polizia aveva quelli di Bolzaneto e Manganelli. La DC aveva Zaccagnini e Sbardella. Ogni famiglia ha le sue pecore nere. Io ci credo in questo Paese”. E ancora: “io pago le tasse fino all’ultimo. So cosa passa mia sorella, che è un medico d’ospedale. Voglio le scuole, voglio gli ospedali. Perché li devo offrire a chi non le paga?”.
L’applauso scrosciante lo interrompe, ma lui riparte come un treno in corsa: “tutti noi che siamo persone oneste siamo spiazzati da tutti questi anni di… chiamarlo malgoverno è sbagliato, perché non è governo. Non posso sopportare che Mauro Capanna interrompa la presentazione di un libro, perché ‘scusate, tra dieci minuti ho una lezione di golf’. È come dare il Ministero dell’Interno a Totò Riina”. La ricetta? “Non si potrebbe fare come l’Inter e comprare politici dall’estero? Perché poi l’Inter fa la Champions…”.
Fino a poco prima, il ragionamento, ravvivato non solo dal complice anarcoide Valleise, ma anche dal più metodico scrittore aostano Claudio Morandini, aveva percorso i binari del nuovo libro. Al centro dell’ennesima “rottura di coglioni” del vicequestore Schiavone c’è il Casinò de la Vallée e la domanda sul “perché ne hai scritto?” era un ineludibile warm-up. “In Valle è un totem. – ha risposto Manzini – Ci giri intorno, cambia colore, ma ogni volta che entri nella regione sta là e prima o poi dovevamo parlarne”.
“Il mio amico Domenico Macrì lavorava là come croupier. – ha aggiunto l’autore – Abbiamo passato serate a parlarne, mi ha raccontato cose incredibili. Ho aspettato due/tre libri e poi bisognava scriverne, tanto che non finisce qui”. No, perché “il mondo che attraversa il racconto è di incertezze e di grandi calcoli inutili. Non poteva chiudersi con questo giro di pallina”. Ecco perché, oltre a “scrivere le scenografie per la terza serie” tv sulle avventure del Vicequestore (con la seconda in onda da stasera), “sto facendo il seguito” di questo romanzo, già che “deve uscire in fretta”.
Secondo Manzini, c’è dell’azzardo anche nella tecnica narrativa del nuovo libro, perché “mi sono divertito a smontare le annose regole del giallo”. La cosa buffa, sorride divertito, “è che Rocco non può risolvere la cosa, perché la cosa non è mai accaduta sul serio. L’ho detto a Bartezzaghi, grande enigmista, e mi ha risposto che sono un sociopatico”. Peraltro, a chi tocca l’universo plasmato nei libri, “succedono cose strane”: “Marco Giallini (volto televisivo di Schiavone, ndr.) si crede Rocco. L’altro giorno alla Rai stava litigando con dei poliziotti. L’ho fermato: ‘te pijano e te portano dentro, non hai armi…’”.
Buffo è anche, oltretutto, che “quando scrivo sto a casa mia, non ad Aosta” e “scatta un esercizio di memoria”, per cui “i luoghi non diventano reali, ma verosimili”. A finire su carta è quindi “l’Aosta dei miei ricordi ed è l’Aosta che vede Rocco. Chi ha visto la fiction sa che Aosta non è blu e zinco, ma Rocco vede quello”. Essere attaccati alla realtà, in fondo, “non serve tanto”, perché non va creato “un libro sulle bellezze” della città, ma “stai facendo la psicologia di un personaggio” e “anche Aosta è un personaggio”.
“Potevo inventare – confessa candido Manzini – una città del nord Europa, ma mi piace parlare del nostro Paese. Ho pensato: ‘quanti abitanti ha Aosta? 40mila? Bene, 40mila mi manderanno affan…, tutti gli altri no”. Per carità, non che, tra gli aostani, qualcuno lo abbia fatto, ma un “giorno mi telefona una signora per dirmi ‘nella rue tale non c’è il bar’. Beh, per quello, non c’è nemmeno Rocco Schiavone”.
Il pensare ad Aosta, in realtà, “è un atto di amore continuo”, anche se con il nuovo libro “sono arrivato a nove cadaveri” e “siamo nell’irreale”. Per cui, “ho già inoltrato richiesta all’ente turismo. Se si possono prendere altri cadaveri… magari qualcuno muore a Ivrea”. All’orizzonte, però, oltre al “sequel” di “Fate il vostro gioco”, si profila una pausa: “devo iniziare un libro nuovo, ma non di Schiavone. Alcune storie mi tormentano e le devo buttare fuori. Questa lo fa dal 1995”. Chi vivrà, vedrà. Intanto, il segreto è “ridere non delle disgrazie, ma con le disgrazie, perché non le possiamo affrontare diversamente”.
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Forse la fiction in questione è un’anomalia rispetto alle altre trasposte dai libri. Giallini sembra uscito dalle pagine di Manzini. Diversamente, ad esempio, dal Montalbano Camilleriano. Personalmente continuo a preferire la carta stampata al video,dove quasi tutto si riduce al mero racconto giallo. Quello che dicono i buoni libri tra le righe, in tv od al cinema, viene solo sfiorato, quando va bene. Poi ok tutto, pure le canne anche se un maggiore rigore morale non guasterebbe. Infine e mi taccio, Deruta e D’intino fanno apparire il buon Catarella, un fulmine di guerra. Tremo all’idea di imbattermi in dei soggetti simili, sinora non è successo, fortunatamente. ?
Solo una precisazione: Non so perché sia tra virgolette però Manzini scrive sceneggiature e non scenografie