“Piccole città, piccoli pensieri”: Motta si racconta ed emoziona

Al Teatro Splendor con “Sinopsia” il cantautore, davanti ad un pubblico ristretto, dialoga con la sua chitarra e con Marco Rainò.
Motta
Cultura

“Roma stasera mi prendi dal collo”. Aosta, invece, non tanto. Pochissima gente era ieri sera al Teatro Splendor per assistere all’evento “Sinopsìa” della Saison Culturelle, ospite uno dei migliori cantautori italiani attualmente in circolazione e vincitore due volte della Targa Tenco, Francesco Motta.

“La sinopsia dà voce ad un istinto percettivo, innesta un racconto. Parole e suoni costruiscono una tavolozza di immagini”, la descrive Marco Rainò, sul palco con Motta per una serata fatta di parole e canzoni. Per spiegare cos’è la figura retorica della sinopsia, Rainò esordisce recitando i primi versi di Il sogno di Maria di Fabrizio De Andrè: “Quando mi chiese: “Conosci l’estate?” / Io per un giorno, per un momento / Corsi a vedere il colore del vento”. Il “colore del vento”, così come “l’urlo nero” di Salvatore Quasimodo, mette in contatto due sfere sensoriali diverse, dando vita appunto alla sinopsia.

“Non mi piaceva studiare, ma forse quando si parlava delle figure retoriche era l’unico giorno in cui ero attento”, racconta Motta appena entrato in scena. Che è stato in grado di dimostrare una verve di simpatia e spigliatezza che difficilmente uno potrebbe aspettarsi solo ascoltando le canzoni dell’intimistico e per alcuni uggioso La fine dei vent’anni o del più ottimistico Vivere o morire. “Per favore, accettate tutte le cazzate che dirò stasera”, dice, che fa un po’ il paio con un verso di Del tempo che passa la felicità (che non ha cantato): “A sparare sul niente / A sparare stronzate / Il problema rimane lo stesso / A chi verranno raccontate”.

“Il mio processo creativo consiste nell’andare a tagliare. Potrei partire da una frase come “Io sono come una poltrona in un teatro”, che è una similitudine, per poi togliere il “come” e dire “Io sono una poltrona in un teatro”, trasformandola in una metafora, fino a dire “Io sono un teatro”. Parto sempre dal gancio emozionale di qualcosa che voglio raccontare per poi cambiare il punto di vista, passando magari dalla prima persona alla seconda o terza”.

E la scrittura di Motta è decisamente mossa dall’emozione, dalla difficoltà di vivere quello che si sta vivendo e di dirlo, perché non sempre parlare delle proprie fragilità è agevole o accettato: “Devi essere fragile, capire quello che non hai e quello che non sei. Io quando scrivo, quando dico quelle cose sto molto meglio”.

Finalmente si passa poi alla musica, che è quello che il pubblico vuole e che lo stesso Motta vuole: “Posso fare una canzone?”, chiede fremendo a Rainò. E allora si comincia con un pezzo poco scontato, Abbiamo vinto un’altra guerra: “Fragile è una colpa / È una ferita aperta / Non serve a far capire / Che si può fare male”.

La boutade dell’accordare la chitarra diventa, nell’arco della serata, una costante in cui Motta dimostra – cercando di mascherarla – la sua difficoltà a stare sotto i riflettori quando non suona: “Essere a teatro è una responsabilità, non è come stare su un palco ai concerti. Ma Nada mi ha dato un consiglio, mi ha detto di suonare sempre per quelli che sono nelle ultime file del teatro”, dice rivolgendosi alla manciata di persone sedute in galleria. Il discorso poi si sposta ad uno degli ispiratori di Motta, Piero Ciampi, di cui canta Il Natale è il 24, per poi ricollegarsi al cantautore livornese con Vivere o morire (“Livorno è una città strana / Piena di gambe nude e personalissime posture”).

Si passa poi a parlare della famiglia, ed in particolare del “babbo” (“Io e mio padre ci siamo abbracciati poco, per questo parlo molto di lui nelle mie canzoni”), introducendo il dittico Mi parli di te e Mio padre era comunista (“Abbiamo già detto quattro volte “comunista”, meno male che non se n’è andato nessuno”, dice). La conversazione scivola, con Motta quasi preoccupato per il pubblico: “State bene? Volete andarvene? Tanto cosa volete fare il lunedì ad Aosta?”. Il lunedì ad Aosta, a fine concerto, si va al Gekoo con Motta e sua moglie Carolina Crescentini (“agganciata” da Barbara), a continuare con il vino rosso valdostano già bevuto sul palco con Rainò. Prima, però, stuzzicato da Alberto, dice anche che avrebbe voluto suonare Roma stasera.

Racconta che sta scrivendo un libro sulla didattica della musica, perché rimpiange di non aver avuto buoni maestri, e che ha terminato la colonna sonora del film Letto n. 6 interpretato proprio da Carolina Crescentini ed ambientato in un ospedale psichiatrico (“Ricordi che quando l’abbiamo visto l’anno scorso a Collegno era colpito dal fatto che fossimo vicini al manicomio?”, mi rinfresca Andrea).

E allora, finalmente, arriva il suo pezzo forse più rappresentativo, La fine dei vent’anni, che racconta le difficoltà di una fase di passaggio, quando si pensa di sapere cosa si vuole, ma il mondo, una fidanzata (“C’è un sole perfetto / ma lei vuole la luna”), una casa nuova non si allineano. I vent’anni non finiscono per forza a 29: a volte anche a 37, 40, 50. È che abbiamo sempre qualcuno da salvare, ma siamo spesso in ritardo, sbagliamo strada, ci facciamo del male e non troviamo parcheggio, parafrasando Motta.

Se la gente non se n’è andata dopo aver sentito ripetere la parola “comunista” per quattro volte, non lo fa neanche quando si parla di una persona transgender, che ha ispirato Sei bella davvero: “Lo so che dal testo non si direbbe che parla di quello”, spiega Motta, “ma non sempre la verità nelle canzoni va esplicitata”. Argomento difficile anche Sanremo ed il brano che il cantautore pisano ha portato, Dov’è l’Italia, ispirato da un pescatore di Lampedusa: l’apertura all’altro, al diverso, è una costante nelle sue canzoni, e denotano una certa sensibilità e capacità di immedesimarsi.

Motta e Rainò salutano, ma Dov’è l’Italia non può essere l’ultima canzone: “E se fossimo ancora insieme / E se questa fosse l’ultima canzone”. Già, ovviamente l’ultima canzone è La nostra ultima canzone.

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