La politica del dire, quando la parolaccia diventa ‘arma’ nello scontro tra partiti

Il bon ton, almeno per quel che riguarda il linguaggio, è merce sempre più rara in politica.
News Nazionali

Roma, 24 ago. (Adnkronos) – Il bon ton, almeno per quel che riguarda il linguaggio, è merce sempre più rara in politica. Nel confronto tra i partiti, infatti, sempre più frequenti sono le parolacce. La piu’ ‘fresca’, cronologicamente parlando, è quella che il leader leghista Umberto Bossi ha destinato senza troppi sofismi all’ex alleato Pier Ferdinando Casini, bollandolo come uno str… “quel che rimane dei democristiani, di quei furfanti e farabutti che tradivano il Nord”, in risposta al “trafficante di banche e quotte latte” che il leader centrista aveva simpaticamente dedicato al ministro delle Riforme.

Sessant’anni fa, in effetti, era tutta un’altra storia: nei Palazzi della politica certe espressioni non erano neppure immaginabili. Nel 1948, agli albori dell’Italia repubblicana e in piena campagna elettorale, due mostri sacri della politica d’altri tempi si insultavano con epiteti che oggi farebbero sorridere: “E’ un agnello dal piede caprino” diceva Alcide De Gasperi del leader comunista Palmiro Togliatti, che gli rispondeva accusandolo di essere “uomo di non troppa grande cultura”.

Negli anni le cose sono radicalmente cambiate, i toni si sono fatti sempre più aspri e ai guanti bianchi sono subentrati i guantoni: i politici si sono sempre più spesso sfidati con parole pesanti come cazzotti. Qualche mese fa, il leader del Pd Pierluigi Bersani ha attaccato il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini accusandola di rompere i co… .

Qualche settimana dopo l’ex premier Massimo D’Alema ha perso le staffe in tv, punzecchiato dal condirettore del Giornale Alessandro Sallusti, definito “mascalzone e farabutto” e ‘invitato’ ad andare “a farsi fottere”.

Ma la storia degli insulti in politica è trasversale e non risparmia nessuno. Così la lista, con il passare degli anni, si è via via allungata: demente, gangster, utile idiota, pezzo di m…, coglione, delinquente, ubriaco, ladro, vigliacco, rompicoglioni, schifoso. E chi più ne ha, più ne metta. Anzi, ne dica.

Tempo fa, il premier Silvio Berlusconi a Benevento si lasciò andare in una cruda critica a certa stampa che “sputtana il Paese”; ancora prima il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta aveva accusato “la povera sinistra” di farsi “condizionare da un’élite di m… “, aggiungendo che la “sinistra per male” deve andare “a morire ammazzata”.

Ricorrere a parole forti non è comunque una novità della cosiddetta seconda Repubblica. Forse è difficile tenere i nervi (e la lingua) a posto quanto la dialettica politica si fa serrata. Nella passata legislatura, l’allora segretario del Pdci Oliviero Diliberto volle precisare quanto grande fosse la sua distanza politica dal Cavaliere: “Non ho nulla a che vedere con Berlusconi. E voglio farlo capire bene. Bisogna far vedere in tutti i modi che ci fa schifo”. Per tutta risposta, si beccò da Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, l’accusa di essere un burocrate staliniano.

Né ci andò leggera la ‘dissidente’ Daniela Santanchè, critica nei confronti di Gianfranco Fini, allora leader di An, ma anche di quanti nel partito, a suo dire, erano troppo inclini ad accettare tutte le decisioni del capo: “Ci sono troppe ‘palle di velluto’, accondiscendenti ai poteri del Re Gianfranco”.

Poco o nulla, comunque, rispetto al clamore che fece l’ormai celebre frase rivolta da Berlusconi agli elettori del centrosinistra, alla vigilia delle elezioni politiche del 2006: “Ho troppa stima per l’intelligenza degli italiani per credere che ci possano essere in giro tanti coglioni che votano per il proprio disinteresse”. Solo pochi giorni prima nel faccia a faccia televisivo all’americana il Cavaliere e il Professore se l’erano cantate a vicenda davanti alla telecamera a colpi di “ubriaco”, “utile idiota della sinistra”, “poveraccio”, “coniglio”.

In certi casi, gli scambi di battute dai toni forti hanno avuto conseguenze nefaste: come nel caso dell’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola, che fu costretto a lasciare il Viminale nel 2020 per le frasi pesanti, poi smentite (ma questo non servì a conservare la carica ministeriale) sul giuslavorista assassinato dalle Br Marco Biagi. L’anno prima, a Cernobbio, davanti alla platea degli industriali Giulio Tremonti aveva attaccato la finanziaria del centrosinistra: “L’ultimo esempio in Europa di supply side, una politica da gangster”. E di Francesco Rutelli aveva detto: “Non voglio dire che sia un terrorista contabile, ma senz’altro un analfabeta contabile”.

In più di un’occasione, teatro dei botta e risposta a suon di parolacce e insulti, sono state le aule parlamentari. Come nel 2004 quando Cesare Previti e il deputato diessino Francesco Bonito si scambiarono parole non proprio eleganti: “Sei un pezzo di m…” avrebbe detto il parlamentare forzista all’avversario politico che, di rimando, gli avrebbe risposto “lo sei tu, oltre che un noto ladro e delinquente”.

Stesso mese, dicembre, stesso anno, 2004: a Montecitorio presiede Clemente Mastella, che non accoglie una richiesta del centrosinistra sull’ordine dei lavori e viene apostrofato da Rosy Bindi con un sonoro “vigliacco”, condito da un altrettanto pesante “venduto”. La replica del leader dell’Udeur, stando a quanto hanno scritto i giornali dell’epoca, sarebbe stata il più classio dei “vaffan…”.

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