Coronavirus, il racconto di un medico e una infermiera valdostani in prima linea in Piemonte

"Oggi questa pandemia ci allontana tutti, speriamo che questo serva a farci diventare più bravi nell’avvicinarci agli altri un domani” racconta Mattia Zanin, specializzando in anestesia che oggi presta il suo servizio presso il reparto di rianimazione dell'Ospedale di Asti. "Andiamo al lavoro preoccupati ma anche tanto arrabbiati perché all’inizio la situazione non è stata gestita bene” aggiunge Anna Liffredo, infermiera ventitreenne, testimone dei problemi e disagi creati dall’emergenza Covid in un ospedale di Torino.
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In Piemonte, dove l’epidemia si è diffusa prima che nella nostra regione, ci sono anche loro a lottare contro il virus: Anna, Mattia e i molti altri operatori sanitari valdostani che, spesso lontani dalle loro famiglie, descrivono la grave situazione sotto i loro occhi.

“La maggior parte di noi specializzandi è stata contattata dall’Unità di Crisi del Piemonte, che ha chiesto disponibilità per degli incarichi negli ospedali con carenza di personale. Per questo motivo, da poco più di una settimana sto lavorando presso l’ospedale di Asti nel reparto di rianimazione, uno dei molti che in Piemonte è stato trasformato in ‘reparto Covid’” spiega Mattia Zanin.

Il giovane specializzando di Anestesia conferma la gravità della situazione valdostana, di cui siamo aggiornati dalle cifre sempre in aumento di questi ultimi giorni: “È vero che ad Aosta il tutto è partito con qualche giorno di ritardo, ma ha anche avuto un’escalation più grave. Ormai, sia in Piemonte che in Valle d’Aosta, chiunque può essere contagiato e questo virus è pericoloso per tutti: a qualsiasi età, un ricovero in terapia intensiva è un viaggio molto faticoso, che può lasciare cicatrici profonde e talvolta non avere buon esito”.

Se i telegiornali e internet ci bombardano continuamente di notizie sconfortanti, gli operatori sanitari devono sopportare la negatività che aleggia nelle corsie ospedaliere senza che sia filtrata da nessuno schermo. “Non c’è più anima viva in ospedale, a parte chi lavora e i pazienti nelle loro camere, dove non ricevono più visite dai parenti. Andiamo al lavoro preoccupati ma anche tanto arrabbiati perché all’inizio la situazione non è stata gestita bene” racconta Anna Liffredo, infermiera ventitreenne, testimone dei problemi e disagi creati dall’emergenza Covid in un ospedale di Torino. “Lavoro in un reparto nato per il periodo invernale, per dare sollievo al Pronto Soccorso tra novembre e marzo, mesi dell’emergenza influenze. Ora è dovuto rimanere aperto e avrebbe dovuto accogliere solo pazienti negativi. A causa della confusione di qualche settimana fa, però, due pazienti, poi risultati positivi, inizialmente non sono stati sottoposti al tampone, mettendo a rischio l’intero reparto”.

In Piemonte dunque, dove i primi casi risalgono al 22 febbraio e la diffusione del virus è stata più graduale, all’inizio dell’emergenza le direttive risultavano poco chiare: “Quando la situazione a Codogno si è aggravata, abbiamo iniziato a preoccuparci e ad usare le mascherine, ma ci hanno detto che creavamo allarmismo. Anche i tamponi non si facevano a tutti, ma solo a determinati pazienti a rischio. Il problema è che non si sono prese le precauzioni necessarie fin dall’inizio: d’altronde i primi casi sembravano quasi una leggenda, mi chiedevo se il virus sarebbe mai arrivato anche da noi e ora abbiamo due reparti Covid pieni!”, racconta Anna.

Mentre noi temiamo innumerevoli giornate all’insegna della noia, la preoccupazione di medici e infermieri è andare al lavoro sapendo di esporsi ogni giorno ad un rischio, di fronte a cui non si può in ogni caso tirarsi indietro. “Il mio contratto scade in questo periodo ma ho deciso di restare qui. Non mi era mai capitato di essere così coinvolta in una situazione tanto grave” confessa Anna.

Un grande sforzo mentale e fisico è richiesto dunque agli operatori sanitari. Allo stesso modo non è solo fisico ma anche psicologico il supporto di cui i ricoverati, lontani dai loro affetti, hanno bisogno, come spiega Mattia: “Per fortuna, o purtroppo, la stragrande maggioranza dei miei pazienti in rianimazione è in coma farmacologico, quindi per la maggior parte della durata del ricovero non è cosciente. Quando arriva finalmente il momento di svegliarli, è nostro dovere – compatibilmente con tutto il resto del lavoro che c’è da fare – trovare un po’ di tempo per pensare anche alla loro salute psicologica. Oggi questa pandemia ci allontana tutti, speriamo che questo serva a farci diventare più bravi nell’avvicinarci agli altri un domani”.

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