In aliante sulla Valle, tra il fascino del volo a vela e le paure da vincere
“La paura è umana, ma combattetela con il coraggio”. Lo disse Paolo Borsellino, parlando di qualcosa di maledettamente serio e tragico, ma il desiderio di superare i propri limiti e timori va assecondato comunque e sempre, per vivere meglio. Dire è più semplice che fare, ma queste righe nascono per raccontare, oltre ad un atout indiscusso della nostra regione, un piccolo atto di ribellione.
Chi scrive, benché affascinato dal volo e dai meccanismi che lo regolano, ha sempre messo piede malvolentieri su aerei di linea (la testimonianza più eloquente è un’Aosta-Malaga di gioventù, preferendo 2mila km di auto, in due giorni, a un volo di un paio d’ore), figurarsi – per quanto fotografati e ammirati svariate volte – sugli aeromobili che si vedono ogni giorno nei cieli della Valle.
La “convocazione” in aeroporto
Eppure, quando un WhatsApp mi ha convocato senz’appello per le 12 di ieri, sabato 14 ottobre, all’aeroporto “Corrado Gex” per “provare a salire” su un aliante e “se poi te la senti andiamo in volo”, ho deciso di fidarmi. Mittente: André Claude Benin, pilota a vela e presidente di Jet Fighter Training, l’associazione nata per diffondere la cultura aeronautica in Valle.
Una volta nello scalo, lo trovo intento a lucidare e controllare l’aliante biposto Schleicher ASK21 dell’AeroClub Valle d’Aosta. “Non credo, con te, faremo delle acrobazie, – sorride – quindi questo va benissimo”. Nei dintorni, anche Mauro Lorenzoni, altro nome noto della comunità aeronautica locale (partendo dalla Valle, è diventato pilota di linea, percorso che lo accomuna a Massimiliano Milano, l’altra “anima” di Jet Fighter Training).
Verso la pista…
Dopo una serie di spiegazioni sui sistemi di emergenza (in particolare, sull’eiezione con il paracadute, “ma non lo userai di sicuro nella prossima mezz’ora”, rassicura Benin), mi ritrovo a spingere l’aliante verso la pista. Sono 600 chili, ma due persone lo spostano senza particolari difficoltà. L’aereo da traino arriva poco dopo. Le verifiche del cavo sono rigorose e, ricevuto il “via libera” dalla torre, si decolla.
In aria!
L’abitacolo non è un loft se si sfiorano i due metri di altezza, ma giusto uno scossone, nemmeno importante, e siamo in aria. La prima sensazione, mentre sfilano sotto di me sulla destra le sagome familiari della zona commerciale di Pollein, è quella di movimenti molto più morbidi, meno impattanti, dell’idea che ne avevo. Qualche ondulazione, come quelle date in nave dalle onde, ma non di più.
Intanto, Benin declina il programma. Lo sgancio dal traino avverrà a 1000 metri dal suolo, sull’area dell’aeroporto. In sostanza, sia detto per onestà, vista la calma di vento sarà una “planata” unica verso terra (ciò che un amante di volo a vela aborrisce), ma lascerà il tempo di “farti pilotare un po’” e di “farti vedere altre cose”. Come sempre, ma lo capirò dopo, il dire e non dire è un arte.
Seduti sul cielo
Lo sgancio è un discreto sussulto. Non solo per il rumore sordo, ma anche per il contraccolpo. “Tutto bene?” chiedo inquieto, ma il pilota è in pieno controllo: una leggera virata e ci ritroviamo in due, a 1.500 metri di altitudine, seduti sul cielo, con l’aria come motore. Il colpo d’occhio, nonostante i luoghi noti, è inedito e mozzafiato. Nemmeno un minuto e, mentre lo sguardo indugiava sull’envers, i suoi prati e villaggi, “prendi la barra con tre dita”.
Eseguo e vengo istruito: “Dobbiamo cercare di stare sul segno dell’anemometro che corrisponde a 90 all’ora”. Spingendo la leva si accelera, tirandola verso di sé si rallenta. E’ facile confondersi (infatti, dopo, mi succederà), perché se a terra esiste un piano di riferimento, qui non c’è. Probabilmente, la scuola dei videogames in adolescenza (quando ancora esistevano i joystick) aiuta e la lancetta non si allontana troppo dalla tacca gialla.
“Ora, prova a farmi una virata a sinistra, delicatamente”. Uso la stessa tecnica e l’aereo si inclina lateralmente. André applaude con le braccia sopra la testa. “Le vedi le mie mani? Stai facendo tutto tu…”. Concentrarsi non lascia il tempo di pensare, anche se il senso che pervade è di incredulità, ma dopo poco, complice un eccesso di rallentamento, gli ripasso convintamente i comandi.
“Ti faccio provare una roba”
L’uomo seduto davanti a me, anche se più giovane, conosce il significato di questo volo e fa sì che la paura se ne resti fuori dall’abitacolo. Parla, racconta, distrae. Quando sente un tono nuovamente sereno, “…ti faccio provare una roba”. Sogghigno, perché immagino ciò che sto per sentire: “rallentiamo, sino a che non sentirai più il vento, stalleremo (la perdita di portata dovuta all’inclinazione verso l’alto dell’aeromobile, ndr.), poi riprenderemo”.
Il fischio dell’aria sulla fusoliera diminuisce. Per uscirne, si torna verso il basso (accelerando) e “ora ti faccio una bella virata”. Un angolo di una sessantina di gradi. E’ come se una mano ti schiacciasse sul cranio, le tempie arrivano sul petto e chiudo gli occhi per uscirne. La mente corre ai video di piloti militari su YouTube, anche se non è nemmeno lontanamente questo il caso. “Abbiamo fatto 2.8G (la forza dell’accelerazione, ndr.), – dice Benin – significa che il tuo corpo nel momento massimo è pesato quasi tre volte rispetto al suolo”.
E’ ora di atterrare
Per chi non ne avesse idea, vuol dire oltre 320 chilogrammi. Siamo in volo da quasi 25 minuti. La “planata” volge al termine. Il pilota comunica ad “Aosta Informazioni” l’atterraggio, lascia scorrere l’aereo verso ovest fino al “Beauregard” e poi imposta la virata a “U”, di allineamento alla pista. La velocità in discesa è attorno ai 100 km/h. Anche stavolta, l’aspettativa di un feeling brusco resta disattesa.
Si tocca terra e l’aliante, persa velocità, s’inclina su un’ala. Sorrido, mi lascio a un liberatorio “ma che figata!” e alzo la capottina. Sono cosciente di non aver vissuto nulla di ciò che un pilota cerca (le “termiche”, che permettono di salire di quota, si trovano accanto ai costoni, che André ha evitato accuratamente), ma sorpreso dall’esperienza. Una paura non si vince del tutto in meno di mezz’ora, ma un po’ dei miei limiti sono rimasti nell’abitacolo di “Alfa Alfa”.