Il dramma dell’Afghanistan è arrivato in redazione questa mattina. Ha bussato con gli occhi timidi, di un verde penetrante, tipici dell’etnia pashtun, di Shukrullah khan, un nome di fantasia che abbiamo scelto insieme, per proteggerlo. Nato a Takfar, nel nord ovest, vicino al confine con il Tajikistan, aveva poco più di vent’anni quando, nel 2016, è dovuto scappare dal suo paese, lasciando lì tutta la sua vita, la sua famiglia: mamma, papà due fratelli e due sorelle più piccole.
Continuare a vivere in Afghanistan per lui era diventato troppo pericoloso dopo il sequestro e le torture subite per più di quattro giorni dai talebani. “Mi hanno tenuto in una stanza senza luci, sono stato picchiato per ore, finché non sono entrato in coma. Quando mi hanno liberato grazie all’intervento di mio padre non riuscivo più a camminare, sono rimasto in ospedale per settimane” mi racconta.
La sua colpa? Lavorare per un’azienda privata di logistica che riforniva i contingenti americano, inglese e tedesco. Per il regime integralista equivale a collaborare con gli invasori. E una volta scoperto Shukrullah non ha accettato di sfruttare la posizione per compiere un attentato e di unirsi ai talebani. Nonostante le generose offerte: tanti soldi, una casa e soprattutto l’incolumità per lui e la sua famiglia. “Ho detto loro di no. Il mio lavoro mi stava bene, volevo continuare a farlo”.
Per scappare ha attraversato tanti paesi, dall’Afganistan all’Iran, dalla Turchia alla Grecia. Solo nel 2017 è arrivato in Italia, prima a Udine e poi in Valle d’Aosta, dopo un breve soggiorno in Germania. Con il sostegno del programma di accoglienza ha chiesto e ottenuto lo status di rifugiato. Non è stato comunque facile per lui: una nuova cultura, una lingua che non conosce e che sta ancora imparando, il fisico provato dalle torture subite. “I talebani mi hanno colpito più volte in testa con il calcio dei fucili, ancora oggi dopo tanto tempo non sto bene mi gira la testa e vedo doppio”. Non sopporta i rumori, le situazioni caotiche lo infastidiscono.
Ma si può dire che lui ce l’ha fatta. Ora vive in un monolocale, da due anni lavora come decoratore e cartongessista. Ha una rete di persone che lo sostengono e gli vogliono bene. Una piccola ma convinta rete di accoglienza, composta da Alessandro Damarco, il fratello Andrea e Dina Squarzino, si è mobilitata all’indomani della caduta del Governo per salvare la sua famiglia.
Perché se Shukrullah è al sicuro, i suoi familiari rimasti in Afghanistan vivono nell’angoscia degli imminenti rastrellamenti e delle rappresaglie. Lo zio è stato già ucciso i primi di luglio in un attentato a Takhar. Il papà è stato raggiunto da due lettere di accusa di collaborazionismo e spionaggio col governo appena caduto. La sua famiglia è vicina a Massud, politico e guerrigliero afghano del Fronte Unito combattente contro il regime talebano afghano. E i talebani stanno già passando di casa in casa per fare “pulizia” e “giustizia” a modo loro.
Così nei giorni scorsi il padre, la madre incinta e i suoi quattro fratelli hanno lasciato tutto per avvicinarsi alla capitale. “In una videochiamata ho visto che vivono stipati come animali in una stanza”. “Non erano convinti di lasciare l’Afghanistan, ma ora si rendono conto che è l’unica possibilità di salvezza”.
Shukrullah teme in particolare per le sue due sorelline, di 11 anni e 6 anni. “I talebani potrebbero chiedere a mio padre una sorella in cambio della vita”. Ieri notte Alessandro Damarco ha quindi inviato una lettera alla Farnesina con tutta la documentazione a sostegno della loro situazione. Nella missiva si chiede di valutare con urgenza e di portarli in Italia. “Non hanno bisogno di aiuti economici, questa famiglia è in grado di mantenersi e stiamo predisponendo una rete di accoglienza per supportarli, il grande problema in questo momento è legato alla loro incolumità” sottolinea.
Un grido di disperazione che chiede di essere ascoltato. Un aiuto dovuto quello alla famiglia di Shukrullah e alle migliaia di afghani che hanno creduto alle promesse di tutela Occidentale e che ora si sentono smarrite e abbandonate.