La Valle d’Aosta e quel triste primato sui suicidi

17 Novembre 2018

E’ uno dei tristi primati che la Valle d’Aosta da anni si porta dietro. Gli ultimi dati sulla nostra regione, contenuti nel rapporto Osservasalute 2017 e relativi agli anni 2013 e 2014, parlano di un tasso medio di suicidi di 16,31 ogni 100mila abitanti. Più del doppio del dato italiano che si ferma a 7,88 ogni 100mila abitanti.

Anche guardando ai dati ospedalieri sul disturbo psichico la Valle d’Aosta conferma il primo posto in classifica.

Nel 2015 sono stati 77,09 ogni 100mila abitanti (in Italia 49,79) gli uomini dimessi almeno una volta con diagnosi primaria o secondaria di disturbo psichico e le donne 81,68 (47,75 in Italia). Dal 2006 al 2016 il consumo di farmaci antidepressivi è passato da 27,86 ogni 1000 abitanti a 38,22.

Numeri che non possono lasciare indifferenti, soprattutto in una settimana, come quella che si sta chiudendo, dove quattro persone hanno scelto un gesto estremo per metter fine al proprio disagio, alla propria sofferenza. L’ultimo, tragico episodio, solo ieri ad Aymavilles.

Abbiamo provato a farci alcune domande e a cercare alcune risposte dalla vice presidente dell’ordine degli psicologi, Letizia Martinengo.

C’è una responsabilità da parte delle istituzioni nel non saper intercettare questo crescere disagio?

Il fenomeno è complesso e richiede una risposta complessa e in questa risposta complessa bisogna tenere conto di tutti gli attori che possono arrivare a costruire salute.
A mio avviso dobbiamo passare da un paradigma dell’assistenzialismo ad un paradigma della proattività, dove ognuno deve fare il suo pezzo, l’individuo e la rete di cui l’individuo fa parte (amici, familiari, colleghi di lavoro), istituzioni pubbliche e private. La questione è multidisciplinare ma anche multicontesto.
C’è poi una questione legata all’accessibilità dei servizi. Secondo i dati più della metà di chi ha un disagio mentale non riceve assistenza.
I professionisti formati per accogliere il disagio mentale ci sono, ma fanno fatica ad esser contattati, perché c’è una sorta di stigma. Chi ha male ad un ginocchio va da un ortopedico, chi soffre invece non si rivolge ad uno psicologo perché c’è a volte la convinzione che “dallo psicologo ci vanno i matti” o ancora “cosa può fare un estraneo per me”. Il primo e unico contatto diventa per molti, quindi, l’ambulatorio del medico di base.

La prevenzione non può quindi passare anche attraverso i medici di base?

Ci stiamo lavorando, come ordine nazionale e regionale. Sta in particolare prendendo piede il modello dei paesi anglosassoni delle cure primarie integrate.
Un lavoro cioè integrato fra il medico di base e lo psicologo, sia sotto forma di formazione, ma anche con la presenza degli psicologi nell’ambulatorio del medico di base.

Quando si viene a contatto con un caso di suicidio sono tanti quelli che ripetono “non mi sono accorto di nulla”, “non ci sono stati segnali”. E’ davvero così?

I segnali normalmente ci sono. E’ chiaro che non sempre sono così espliciti e diretti e a volte vengono lanciati in modo diversi in diversi contesti, per cui è difficile riuscire a intrecciarli. A volte c’è l’isolamento, la chiusura, i cambi di umore, ma bisogna anche vedere i malesseri legati al lavoro o alla mancanza di lavoro.
Magari uno diventa pigro, ma su questa pigrizia non ci interroghiamo.
Il problema è che non sempre abbiamo voglia di prestare la giusta attenzione a questi segnali, perché si è persa la dimensione dell’ascolto. Quando qualcuno sta male facciamo fatica ad ascoltare, poi con alcuni tipi di sofferenza cerchiamo di evitare  di entrarci in contatto. Non è semplice, soprattutto in un contesto nel quale la nostra società ci spinge a esser performanti, dove i limiti devono esser negati, e anche le fragilità nascoste. Difficilmente mostriamo le nostre debolezze, almeno che non ci abbiamo fatto pace. Non possiamo pensare comunque che si riduca tutto ad una equazione.

Il dramma di Aymavilles lascia ad ognuno di noi tante domande. Esistono altrettante risposte?

Quando sono così prossimi questi fatti ci spaventano e ci inquietano.  Andiamo a cercare risposte per esser rassicurati e per poter dirci “Non capiterà a me, alle persone che mi sono vicine, per me è diverso” .
Dal mio punto di vista è fondamentale che queste situazioni non vengano affrontate, anche dal punto di vista dei media, con uno sguardo sensazionalistico.
Bisogna far capire che laddove c’è un disagio, si possono avere delle risposte, perché ci sono dei professionisti formati che possono darle.  Si può star male e si può avere una risposta appropriata.
Il suicidio è la manifestazione più drammatica del disagio mentale, ma il disturbo bisogna e si può coglierlo prima.

Exit mobile version