Non c’è mai un momento facile per affrontare la morte di qualcuno caro, ma forse mai come in una situazione come quella attuale è stato più difficile. Se, per molti, il rito funebre rappresenta l’inizio della civiltà, la rivoluzione che stiamo vivendo deve servire, forse, a reinventare la concezione di civiltà.
Da quando non sono più consentiti i funerali, da quando molte persone sono in quarantena e non possono dare l’ultimo saluto ai propri cari, è necessario far fronte al proprio dolore in modo diverso. Anche le imprese funebri sono alle prese con un lavoro che, di questi tempi, è ancora più difficile, e si impegnano ad offrire qualcosa di cui si sente la mancanza: l’umanità.
“Negli ultimi giorni un po’ meno, ma all’inizio i parenti dei defunti non potevano assistere alla piccola benedizione che il parroco impartiva alla bara o alla consegna delle ceneri al tempio crematorio perché in quarantena. Pensando a loro abbiamo iniziato a fare delle fotografie e dei video, lasciando a loro la scelta se riceverli o meno. Il 90% delle persone li vuole per mantenere il ricordo e per supplire all’impossibilità di assistere”, è il racconto di un impresario. “Ci è venuto naturale iniziare a fare questo servizio, nessuno ce l’ha chiesto e non è obbligatorio. Crediamo che sia un piccolo conforto per loro, già è dura così”.
La cremazione – spiega – non è obbligatoria ma fortemente consigliata, ed in molti vi fanno ricorso per sicurezza (tutti i decessi sospetti sono trattati come fossero positivi al Covid-19), anche se questo comporta una dilatazione dei tempi di circa cinque giorni, durante i quali i feretri restano nell’hangar dell’aeroporto che funge da “polmone”.
“In questa fase il nostro mestiere è ancora più delicato perché bisogna guadagnarsi la fiducia delle persone, a volte prenderle di petto. Se muore qualcuno in microcomunità che magari uno non vede da un mese, ci vuole molto impegno, umanità, serietà per stargli vicino, spiegare la situazione, dare un sostegno”.
Ed è difficile anche per chi fa questo mestiere: “Da subito abbiamo adottato i dispositivi di protezione. Quando entri in ospedale o in microcomunità vedi il terrore negli occhi di oss, medici ed infermieri. Ora iniziamo ad avere paura anche noi”.