Strano Paese il nostro. Sono sempre stato anglofilo americanofilo. Ho sempre amato letteratura, musica, cinema inglesi e americani, fin da ragazzo. Anche quando frequentavo i luoghi della sinistra valdostana, era facile vedermi con in mano i gialli di Agata Christie o Ed McBain, o incontrarmi all'uscita del cinema dopo «Grease» o «Saturday night fever», o, ancora, trovarmi nella saletta dell'ARCI ad ascoltare i Dire Straits o i Pink Floyd. Non è mai stato facile per chi militava a sinistra o a destra manifestare questo tipo di inclinazione, perché l'ambiente era ostile, ma io non ho mai permesso al settarismo culturale che mi circondava di modificarmi.
Nel tempo le mie frequentazioni sono cambiate, non è però cambiato il mio amore per la cultura britannica e per quella americana. Esso, a dir la verità, si è sviluppato ed è andato a invadere campi a cui prima non aveva mai avuto accesso. Ad esempio la politica. Ecco perché dico «strano Paese il nostro», un Paese che vorrebbe essere occidentale e non ci riesce. Stimoli ce ne sono sempre stati, però non ci siamo mai riusciti. In Gran Bretagna e negli USA, ad esempio, qualsiasi partito vinca le elezioni, nessuno agita spettri fascisti o comunisti per demonizzare gli avversari, nessuno teme l'avvento di terribili dittature, nessuno usa la storia del Novecento per ipotecare il futuro. In Italia invece la scena è di tutt'altro tipo. Il centrodestra continua a utilizzare le categorie del 1948 e non riesce a fare a meno di agitare il pericolo comunista (salvo, poi, proporre anacronistiche medaglie per i reduci della RSI), mentre a sinistra non si perde occasione per gridare al regime e per evocare fantasmi che, ormai, non fanno più paura a nessuno (salvo, poi, a loro volta, usare come crocefissi «I funerali di Togliatti» e tutto quanto la cultura militante, negli anni, ha realizzato).