Alain Delon: cinque film per ricordare il divo francese

All’età di 88 anni, lo scorso 18 agosto è mancato il divo francese Alain Delon. In questa puntata di “Incontri ravvicinati con AIACE” vi consigliamo 5 titoli per ricordare l’uomo più bello del mondo.
Alain Delon
Incontri ravvicinati con AIACE

All’età di 88 anni, lo scorso 18 agosto è mancato il divo francese Alain Delon, l’attore che ha segnato non solo la settima arte, ma anche la cultura del secolo scorso. Tralasciando le ombre dell’uomo, qui omaggiamo l’attore per la luce che emanava ed emanerà per sempre sullo schermo, con i suoi magnetici occhi color ghiaccio, grazie alla forma di immortalità più potente di tutte: il cinema. In questa puntata di “Incontri ravvicinati con AIACE” vi consigliamo 5 titoli per ricordare l’uomo più bello del mondo.

ROCCO E I SUOI FRATELLI di Luchino Visconti, disponibile su Rai Play (Italia,1960)

 

Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti
Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti

I cinque fratelli Parondi arrivano a Milano dalla Lucania: come le dita delle mani – secondo la mamma Rosaria che li vorrebbe sempre insieme – Vincenzo, Simone, Rocco, Ciro e Luca rappresentano cinque modalità del distanziamento dai codici familiari e dell’integrazione individuale nel tessuto urbano della metropoli. In un film diviso in 5 capitoli-atti, Rocco, interpretato da Alain Delon, è nella posizione centrale: punto di equilibrio della famiglia, non è né integrato – come Vincenzo – né un bambino – come Luca. Non rifiuta completamente di adeguarsi ai codici sociali – come Simone – né accetta volontariamente di sposarli – come Ciro.

Anestetizzato al desiderio e immune alle luci della città, Rocco è una originalità nel panorama esistenziale e cinematografico della modernità. Di lui, che fa il pugile per guadagnare, si innamora la prostituta Nadia, ma di lei si invaghisce Simone. Eroe del sacrificio e novello idiota dostoevskiano, Rocco rifiuta l’amore per salvare la famiglia. La dimensione epica si mescola a quella tragica, nella struttura e nei contenuti. Tutto, nella trama e nel linguaggio, è pregno di e vira verso la disgregazione, la morte e la fine: della vita, dei valori familiari, del sé. Tra decadentismo, melodramma e realismo che, condensati, diventano mito, Visconti firma un capolavoro del 1960 che, insieme a La dolce vita di Federico Fellini e L’avventura di Michelangelo Antonioni, racconta le luci e le ombre interiori della modernità.

L’ECLISSE di Michelangelo Antonioni disponibile su YouTube e Dailymotion (Italia, 1962)

 

L'eclisse di Michelangelo Antonioni
L’eclisse di Michelangelo Antonioni

Moderna flânerie nell’Italia degli anni ‘60. In una calda estate romana, a suon di cacofonie urbane e interminabili silenzi interrotti dai twist di Mina, Vittoria (Vitti) non ama più Riccardo (Rabal), ma conosce Piero (Delon). Antonioni contempla il vuoto e lo riempie con il nulla: a dominare su questi personaggi annoiati, oziosi e inattivi è l’eclissi dei sentimenti. Al suo terzo ruolo di rilievo dopo Delitto in pieno sole e Rocco e i suoi fratelli, Delon compare dopo ben 20 minuti, di sfuggita, come volto nella folla di una borsa in cui si gioca il tutto per tutto. Nonostante la rapidità della prima inquadratura in cui lo vediamo, non possiamo non riconoscerlo e innamorarcene.

Poco dopo riappare con una donna nella stessa inquadratura, agli estremi di una gigantesca colonna che li separa, annuncio nefasto dell’incomunicabilità interindividuale. Lei, la bellissima Vitti; lui, il bello impossibile Delon. Ragazzo maleducato e anche un po’ cafone, passa le sue giornate a gridare in borsa come agente di cambio. In futuro sarà associato soprattutto al samurai solitario e silenzioso, ma qui è contraddistinto da un insolito élan vital quasi puerile, che pian piano andrà spegnendosi come una candela al vento, forgiando per sempre il Delon divo dal fascino malinconico e impassibile. Ma, disinteressata da una storia di non-amore che sta per iniziare tra i due protagonisti, la macchina da presa abbandona presto il duo Delon-Vitti, per regalarci un modernissimo e radicale décadrage di quasi 8 minuti.

IL GATTOPARDO di Luchino Visconti, disponibile su Rai Play (Italia, Francia, 1963)

Il gattopardo di Luchino Visconti
Il gattopardo di Luchino Visconti

Palma d’Oro al Festival di Cannes 1963, “Il Gattopardo” ci porta in Sicilia nel 1860 quando don Fabrizio (Burt Lancaster), principe di Salina, è costretto a vivere il declino dell’aristocrazia a seguito dello sbarco dei garibaldini. Alla sua uscita, il film – tratto dall’omonimo romanzo (1958) di Filippo Tomasi Di Lampedusa – infiamma il dibattito cinematografico e politico. Sono anni caldi in cui la politica permea ogni ambito: i moti del ‘68 con le loro rivoluzioni sociali sono alle porte e, prima, nel ‘46, il referendum ha deciso l’abolizione della monarchia e, dal ‘48 i titoli nobiliari non sono più riconosciuti e non hanno alcuna rilevanza giuridica. Visconti, negli anni ‘30 vissuti in Francia, si avvicina all’ambiente di sinistra attraverso la frequentazione di Jean Renoir e Jean Cocteau e per tutta la vita resta legato al Partito Comunista Italiano. Nonostante ciò, la critica non lo risparmia dall’accusa di antistoricismo e di visione reazionaria. Molti vedono nella figura di don Fabrizio una trasposizione autobiografica dell’autore, che nasce conte di Lonate Pozzolo e vive i suoi primi anni nell’agiatezza dei salotti nobili.

 Adesso, dopo sessantuno anni, quello che emerge è un mondo di luci e cristalli che non esiste più, visto attraverso una lente malinconica. Il principe di Salina incarna l’orgoglio e la fierezza, ma anche i vizi e i privilegi della classe aristocratica ormai irrilevante nella bilancia sociale. Mentre le valutazioni politiche tendono a disfarsi nel tempo, quello che resta e rende Il Gattopardo una stella ancora brillante nel firmamento filmico è l’accurata e opulenta ricostruzione dei luoghi siciliani d’epoca e il carosello di interpretazioni indimenticabili. Per ricreare l’immaginario paese di Donnafugata, si sceglie il piccolo borgo di Ciminna. In assenza del palazzo principesco, in quarantacinque giorni viene innalzata la facciata dell’edificio secondo il progetto dello scenografo Mario Garbuglia e per riuscirci sono reclutati anche i contadini delle zone limitrofe. Per riportare  il calendario indietro nel tempo, vengono sostituite centinaia di saracinesche con le persiane, l’asfalto delle strade viene occultato con terra battuta, nei quartieri di Palermo e di Ciminna vengono rimossi i fili della luce, del telefono e le antenne televisive. L’arredamento degli interni viene allestito con l’aiuto e la supervisione di Gioacchino Lanza di Mazzarino, figlio adottivo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Dalle favolose collezioni della famiglia Mazzarino proviene una grandissima parte dei mobili, dei letti, degli arazzi, dei lampadari, delle moquettes, usati per decorare le sale dei palazzi e molti dei servizi di piatti, posate, cristallerie compaiono lucenti nella celebre scena del ballo.

Per sostenere gli altissimi costi, la casa di produzione Titanus è costretta a cercare investitori esteri e questa è una delle ragioni per cui si affida il ruolo di protagonista a un attore di forte interesse internazionale: Burt Lancaster. L’americano riesce a interpretare magistralmente un ruolo distante da lui più di cent’anni e ottomila chilometri e a sfumare l’altero carattere del principe di Salina con dei toni nubilosi e sentimentali. Claudia Cardinale recita il ruolo di Angelica, la bellissima e saggia figlia del rampante borghese don Calogero Sedara. Pur di partecipare alla realizzazione del Gattopardo si sottopose a una grande prova attoriale, sia fisica che mentale. Infatti, negli stessi mesi recitò nel film “8 e ½” di Federico Fellini (rivale cinematografico di Visconti per temi e stile) le cui riprese iniziarano a soli cinque giorni di distanza. Fu costretta a ripetuti spostamenti tra Roma e la Sicilia e obbligata a continue trasformazioni, come racconta Francesco Piccolo nel suo libro “La bella confusione”.

Poi c’è lui, Alain Delon, che a schermo occupa un minutaggio ridotto, ma incarna la figura fondante del film. Il suo personaggio, Tancredi Falconeri, nipote di don Fabrizio, muove la storia con la sua ardita intraprendenza. Prevede gli eventi e riesce a cavalcarli per realizzare le sue ambizioni. Sono soprattutto i suoi sguardi che riescono a dare profondità al giovane rampollo e a trasmettere quello che si nasconde nei suoi silenzi: una certa invidia e rivalsa verso quello che è stato. Durante il valzer ballato dallo zio insieme ad Angelica, il sorriso beffardo di Tancredi mal si accorda con il suo sguardo carico di gelosia e sebbene porti il dovuto rispetto, il bacio che strappa ad Angelica quando la danza termina, mette don Fabrizio da parte e lo destina a divenire un personaggio di sfondo. Con questo ruolo, tra i più iconici che l’attore ha interpretato, la carriera di Alain Delon è segnata e lui viene iscritto a pieno titolo nella storia del cinema europeo. Se si volesse riassumere il film in una sola battuta sarebbe sicuramente la sua celeberrima: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.”

LA PISCINE di Jacques Deray, disponibile su Rai Play (Francia, Italia, 1969)

La piscine di Jacques Deray
La piscine di Jacques Deray

 

La macchina da presa si avvicina lentamente a un corpo a bordo piscina, abbronzato, tonico e bello. È quello di Jean-Paul (Alain Delon), che sta prendendo il sole. Poi, una voce fuoricampo lo chiama: è quella della fidanzata Marianne (Romy Schneider), che si tuffa in acqua. Mentre i due stanno per fare l’amore, una chiamata li interrompe: è Harry (Maurice Ronet), un ex amante di lei, che sta arrivando per una visita a sorpresa insieme alla figlia Pénélope (Jane Birkin). La piscina che dà il titolo al film è il set in cui, tra noia, gelosia, alienazione, insicurezza e schermaglie, i rapporti si complicano, i dialoghi si fanno sfida sul corpo femminile, le azioni si confondono e la violenza, dapprima latente, si rende drammaturgicamente manifesta con l’affiorare di un corpo morto dall’acqua. Alain Delon, qui scrittore fallito e pubblicitario stanco delle cose, apatico e inquieto, è un mosaico conosciuto e conoscibile solo parzialmente, e rimane mistero anche per Marianne che, tra riconoscimenti e misconoscimenti, non riesce a metterlo a fuoco. Deray, che scrive il film insieme a Jean-Claude Carrière (sceneggiatore della borghesia di Buñuel), sosta sui volti dei personaggi sondandone gli abissi psicologici, forse non così profondi, che rimangono appannati, in un film straniante a cui si ispira anche Guadagnino quando, nel 2015, dirige A bigger splash.

LA PRIMA NOTTE DI QUIETE di Valerio Zurlini, disponibile su Prime Video (Italia, 1972)

LA PRIMA NOTTE DI QUIETE di Valerio Zurlini
LA PRIMA NOTTE DI QUIETE di Valerio Zurlini

 

Mani nelle tasche, sigaretta costantemente in bocca, cappotto di cammello, maglione a collo alto, capelli scompigliati, barba malfatta e uno sguardo intriso di tristezza da togliere il fiato. Così si presenta Delon nell’inizio folgorante del capolavoro di Zurlini, nonché una delle prove migliori e più importanti dell’attore francese. Immerso nella nebbia di una Rimini invernale e inospitale, sembra un fantasma naufrago in un film di fantasmi. Professore di lettere, si innamora della sua alunna Vanina, che si chiama come “un vecchio film” (di Rossellini) e un romanzo (di Stendhal). Eroina malinconica quanto il protagonista maudit, è circondata da una compagnia di altri fantasmi naufraghi alla deriva e da una madre dispotica (splendido cameo di Alida Valli).

L’iconico cappotto di cammello lo tiene addosso ovunque: in aula con gli studenti, al bar e persino a ballare sulle note della Vanoni, ma se lo leva solo per amore. Un amore impossibile e destinato all’inevitabile caduta dell’angelo Delon. Se per André Bazin Humphrey Bogart era l’uomo che portava sul volto i solchi dell’immanenza della morte, l’aveva incontrata e ci conviveva, Alain Delon era l’uomo di cui la morte si era innamorata e che non era mai riuscita ad abbandonarlo. Era l’uomo senza passato condannato da un impietoso avvenire, che attende la sua fedele e fatale compagna di sempre per una partita persa in partenza. Dopo i tormenti di una vita, in agguato al capolinea, c’è la prima notte di quiete, quella in cui “per la prima volta si dorme senza sogni”.

 

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