Cinquant’anni di “Profondo rosso”

Cinquant’anni fa, sui grandi schermi italiani usciva Profondo Rosso di Dario Argento. In questa puntata della rubrica, Ludovico Franco ricorda l’anniversario di un cult assoluto, che è molto più di un “classico thriller”.
Profondo Rosso di Dario Argento
Incontri ravvicinati con AIACE

In questa puntata della rubrica “Incontri ravvicinati con Aiace“, Ludovico Franco ricorda l’anniversario di un cult assoluto, “Profondo Rosso”, che è molto più di un “classico thriller”.

Testimone oculare involontario dell’omicidio di una medium che aveva avvertito la presenza di un assassino, il pianista Marc decide di indagare da solo. Con l’aiuto di una giornalista, segue le tracce di un efferato delitto avvenuto molto tempo prima. Ma la verità è ancora lontana e le morti sempre più violente e vicine a lui.

Alla fine del film precedente di Dario Argento, prima dei titoli di coda, compare una scritta, tanto ovvia quanto essenziale: “Avete visto Quattro mosche di velluto grigio” (1971). Ritroviamo questa dicitura anche in Profondo rosso, dove la dichiarazione “avete visto assume una sfumatura semantica fondamentale, poiché prosegue la riflessione sul vedere già iniziata con Luccello dalle piume di cristallo (1970), che si apre con la scena di un omicidio a cui un testimone assiste – male – attraverso una vetrina trasparente; poi con Il gatto a nove code (1971), in cui un cieco vede meglio degli altri e può risolvere l’enigma. Questa esplorazione è portata al parossismo proprio nel capitolo conclusivo della cosiddetta “trilogia animale”, con l’occhio della vittima che, dopo la morte, è ancora in grado di riprodurre le immagini delle quattro mosche del titolo, impresse sulla retina come i fotogrammi della pellicola. Una riflessione sul senso della vista che, in Argento, non è mai disgiunta dall’udito: i suoi capolavori sono opere totalmente audiovisive, tra colonne sonore intramontabili e un accurato sound design.

Profondo Rosso: un film sul cinema e sul vedere

Chiave di volta del “thriller all’italiana” – all’estero “giallo” – per certi versi “Profondo Rosso” ne è anche il canto del cigno, prima della deriva nei territori del fantastico con Suspiria (1977). Profondo rosso non è il “classico thriller”. Un po’ come Blow-Up di Antonioni, Psycho di Hitchcock o Vestito per uccidere di De Palma, è un film sul cinema, sul vedere, sul percepire, sullillusione, su un cinema puro come il rosso del sangue. L’evidente virtuosismo di Argento non è dunque fine a se stesso, ma è un’esibizione necessaria a riflettere sul medium. I suoi “gialli” sono innanzitutto teoremi cinematografici, un’applicazione teorica e consapevole dei meccanismi dello sguardo, un laboratorio di idee e forme che ritornano, si ibridano e si rigenerano.

Il suo cinema non può fare altro che parlare del guardare, in tutte le sue declinazioni, nelle varie possibili metafore dello schermo cinematografico e della posizione spettatoriale. La paraveggenza della medium, che vede con la mente, è un’alternativa potenziata alla vista ordinaria, fallace e soggetta a rimozioni. Ci sono poi la finestra-schermo del primo omicidio, a cui Marc assiste come uno spettatore impotente di fronte alle immagini in movimento e lo specchio, che rivela già all’inizio del film il volto dell’assassina, ma ci inganna in un collage confuso di volti. Proprio l’iconico specchio, che illude il protagonista di “aver visto qualcosa di importante”, che però poi non riesce a ricordare, riflette la fallibilità dellocchio e della vista, sviluppata dal suo cinema, che può al contrario ingrandire macroscopicamente oggetti e feticci, fino a mostrarci con una vicinanza perturbante il primario dispositivo di visione: l’occhio umano.

Profondo Rosso di Dario Argento
Profondo Rosso di Dario Argento

Non a caso i personaggi si interrogano continuamente sull’onniveggenza e l’inverosimile onnipresenza dell’assassino, che sa e vede tutto: ciò è possibile perché lassassino non è un normale personaggio, ma è la macchina da presa, anzi il regista (Argento ha spesso dichiarato che le mani omicide nei film sono le sue), che ci disorienta in una partitura di punti di vista e sguardi, soggettive, finte soggettive, oggettive irreali. Lomicida orchestra gli efferati e spettacolari delitti come Argento orchestra i suoi film, con tanto di accompagnamento musicale (la nenia infantile), trucchi (la bambola meccanica), costumi di scena (l’impermeabile e il cappello). Il sadismo del regista ci spinge a calarci nello sguardo del carnefice, la cui apparente unità si frantuma, si disloca in altri sguardi, ancorandosi soltanto all’unico occhio inestinguibile: la macchina da presa.

Da cinquant’anni, Profondo rosso ci ha fatto – e continuerà a farci – vedere così tanto da non avere quasi nient’altro da mostrarci, se non la nostra stessa immagine che si guarda riflettersi in una pozza di sangue.

di Ludovico Franco

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