Buon Black Hole Friday!

Oggi è anche il Black Hole Friday, iniziativa promossa da otto anni dalla NASA, l’agenzia spaziale degli Stati Uniti, e dedicata alla divulgazione scientifica sui buchi neri.
Un buco nero super massiccio circondato dal disco di accrescimento, che emette onde elettromagnetiche e getti di plasma
Un, due, tre stella!

Oggi è il Black Friday, la giornata dello shopping e delle occasioni imperdibili, o presunte tali. Un’iniziativa commerciale che quest’anno non si svolge nelle condizioni più favorevoli. Se siete tristi perché andare per negozi è la vostra passione e non potete farlo, se tenete ansiosamente la mano sulla tastiera di smartphone, tablet e pc avendo paura di perdere l’affare migliore, se siete preoccupati perché adesso avete ben altri problemi a cui pensare (opzione che temiamo sia la più diffusa), allora cerchiamo di sollevarvi il morale offrendovi gratuitamente un’opportunità di acquisto … di conoscenza sugli oggetti astrofisici forse più popolari e allo stesso tempo meno compresi di tutta l’astronomia: i famelici buchi neri!

Infatti oggi è anche il Black Hole Friday, iniziativa promossa da otto anni dalla NASA, l’agenzia spaziale degli Stati Uniti, e dedicata alla divulgazione scientifica sui buchi neri. Mettiamo subito in chiaro (#NoPunIntended) che scorrere l’articolo non sarà una passeggiata, ma confidiamo che ne varrà la pena. D’altronde, anche per scovare un buon affare bisogna essere concentrati, sia che si è curiosi tra gli scaffali oppure sul web.

Deformazione dello spazio-tempo prodotta da un buco nero di dieci masse solari visto da 600 km di distanza, con la Via Lattea sullo sfondo Crediti: Ute Kraus, Institute of Physics, Universität Hildesheim, Space Time Travel https://www.spacetimetravel.org
Deformazione dello spazio-tempo prodotta da un buco nero di dieci masse solari

La migliore teoria che attualmente abbiamo a disposizione per descrivere gli effetti della gravità, nell’universo e sull’universo, è la famosa relatività generale di Einstein, formulata poco più di un secolo fa. Nelle sue illustrazioni divulgative, spesso si paragona il cosmo a un lenzuolo ben steso perché tenuto ai quattro angoli, sollevato a mezz’aria.
Il lenzuolo rappresenta idealmente lo spazio-tempo, una sorta di palcoscenico dinamico sul quale si svolgono i fenomeni fisici. Se ci metto sopra una pallina, il lenzuolo s’incurva, formando una piccola depressione dove c’è la pallina; se ce ne metto una più pesante, s’incurva di più. Se ora lancio una biglia da quelle parti, va dritta finché corre sulla parte stesa del lenzuolo, ma cambia il suo percorso quando si trova nei pressi della depressione, facendo una curva. E più vi passa vicino, maggiore è la sua deviazione dalla direzione iniziale. In modo analogo, le masse dei corpi celesti incurvano la struttura dello spazio-tempo, in modo tanto più grande quanto più massiccio è l’oggetto che lo provoca.

Questa è l’interpretazione che la relatività generale di Einstein fornisce della gravità: una deformazione geometrica dello spazio-tempo che influisce sul comportamento dei corpi, che a loro volta influiscono sulla deformazione dello spazio-tempo. Immaginiamo, per esempio, che la Luna sia la biglia e la Terra sia la pallina. La Luna tende ad andare dritta per la sua strada, ma incontra la curvatura dello spazio-tempo dovuta alla massa della Terra e quindi le gira intorno, rimanendo così legata nella sua orbita. Ovviamente si tratta di una metafora: la Luna non è una biglia, la Terra non è una pallina, lo spazio-tempo non è un lenzuolo. Anche perché questo ha tre dimensioni (lunghezza, larghezza, spessore), mentre lo spazio-tempo, come suggerisce il nome, ne ha quattro: alle tre spaziali si aggiunge il tempo. Si tratta di un modellino, per dare l’idea.

E visto che è un modellino ideale, possiamo spingerci fino alle estreme conseguenze. Che cosa succede se la pallina diventa sempre più piccola come volume, mantenendo però la stessa massa, cioè la quantità di materia che contiene al suo interno? La pallina diverrà man mano più densa, scavando nel lenzuolo una depressione sempre più curva e profonda. E se per ipotesi il volume diventa infinitesimo, anzi nullo? La densità tende all’infinito e la depressione… idem, diventando uno strappo nel lenzuolo che si apre su un pozzo senza fondo! Una biglia che passasse dove c’è lo strappo vi cadrebbe dentro, senza via d’uscita.

Assurdo, vero? Fu proprio quello che pensò Albert Einstein, quando altri studiosi gli fecero notare che le equazioni della relatività generale erano compatibili proprio con una soluzione di questo genere: una massa concentrata in unico punto senza dimensione, altrimenti detta singolarità, in quanto oggetto singolare, cioè dalle proprietà uniche. L’accartocciamento (perdonate il tecnicismo) dello spazio-tempo porta infatti alla sua lacerazione, producendo una regione a sé stante rispetto al resto dell’universo, dove le leggi della fisica a noi note perdono di significato. Il grande fisico tedesco riteneva che si dovesse trattare di un mero artificio matematico, senza una reale controparte nel mondo reale, e con lui molti eminenti scienziati della prima metà del XX secolo. Le singolarità continuarono a essere oggetto di studio teorico, ma tutti convenivano che la natura non potesse ammettere un simile mostro, si dicevano, come per consolarsi reciprocamente di fronte a un’ipotesi così spaventosa.

Si dovranno attendere i favolosi anni ’60 perché la possibilità che le singolarità esistessero per davvero cominciasse a essere presa sul serio. Tra i tanti i contributi al riguardo, ne citiamo solo alcuni. Attorno al 1965 i britannici Roger Penrose e Stephen Hawking dimostrarono con rigorosi conti matematici che le singolarità sono conseguenza inevitabile della relatività generale: se valgono quelle equazioni, come suffragato da mille esperimenti e osservazioni, allora le singolarità non possono non esserci, addirittura. Poco prima, nel 1964, l’italiano Riccardo Giacconi aveva identificato la sorgente astronomica Cygnus X-1 che, con una massa di circa 15 volte quella del Sole e dimensioni inferiori a quelle delle più piccole stelle normali, fu il primo oggetto celeste sospettato di essere una singolarità – o meglio un buco nero, termine reso popolare nel 1967 dallo statunitense John Archibald Wheeler. Buco non perché si tratti davvero di un foro nel quale possiamo cadere, come un tombino lasciato aperto, ma perché sconnesso dal cosmo circostante; nero perché la distorsione dello spazio-tempo è tale che entro un certo raggio di avvicinamento alla singolarità nulla più riesce a sfuggire, nemmeno la luce nonostante la sua straordinaria velocità. Insomma, un’espressione che ci ricorda che brancoliamo nel buio e nulla sappiamo, né possiamo sapere, di che cosa accade entro quella distanza dalla singolarità. La consapevolezza della realtà di una lacuna incolmabile nella nostra conoscenza diventa anche un invito a essere umili nei confronti delle leggi della fisica.

Un buco nero super massiccio, cioè con massa compresa tra centinaia di migliaia e miliardi di volte la massa solare, circondato dal disco di accrescimento, che emette onde elettromagnetiche e getti di plasma Crediti: NASA/JPL-Caltech https://www.jpl.nasa.gov/spaceimages/details.php?id=pia16695
Un buco nero super massiccio circondato dal disco di accrescimento, che emette onde elettromagnetiche e getti di plasma

Eppure i buchi neri possiamo vederli. Come? In modo indiretto, grazie all’effetto che esercitano su ciò che è abbastanza vicino da risentire della loro presenza, ma non così tanto da divenire un prigioniero, almeno non ancora. Ne sappiamo qualcosa nel nostro Osservatorio Astronomico, dove il Progetto Nuclei galattici attivi, realizzato in collaborazione con l’INAF-Osservatorio Astrofisico di Torino e con il supporto della Fondazione CRT-Cassa di Risparmio di Torino, studia dal 2006 proprio buchi neri con milioni o miliardi di masse solari, situati nel centro della galassie lontane. Quello che vediamo puntando il Telescopio Principale da 81 cm di apertura non è il buco nero, appunto invisibile, bensì l’emissione di luce e energia della materia catturata dal buco nero che, prima di essere inghiottita definitivamente, si riscalda così tanto da irraggiare una grandissima quantità di onde elettromagnetiche e getti di plasma, cioè materia ionizzata. Le misure compiute a Saint-Barthélemy dell’emissione proveniente dalla galassia CTA 102, tra novembre e dicembre del 2016, costituirono addirittura il record assoluto di luminosità nella banda ottica registrato fino a quel momento per una particolare categoria di nuclei galattici attivi, detti blazar. I dati furono determinanti per un importante studio pubblicato l’anno dopo su Nature, la più influente rivista scientifica al mondo insieme a Science. Un analogo buco nero, benché meno massiccio di quello di CTA 102, si trova anche al centro della Via Lattea, la nostra galassia, studiato tra gli altri dall’astronomo tedesco Reinhard Genzel e dall’astronoma statunitense Andrea Ghez.

Altri studi recenti hanno clamorosamente confermato l’esistenza dei buchi neri. L’11 febbraio 2016 la collaborazione internazionale tra i progetti LIGO, con base negli Stati Uniti, e Virgo, situato in Italia, ha annunciato la prima rivelazione di onde gravitazionali, avvenuta qualche mese prima, il 14 settembre 2015. L’onda gravitazionale GW150914, un’oscillazione dello stesso spazio-tempo (tornando al modellino, è come se avessimo impercettibilmente sbattuto il lenzuolo), rispettava esattamente le caratteristiche previste dalla teoria della relatività generale per un’onda prodotta dalla fusione di due buchi neri di massa originariamente pari a 36 e 29 masse solari.

Poi, il 10 aprile 2019, la collaborazione internazionale Event Horizon Telescope ha mostrato la prima cosiddetta “foto” di un buco nero, quello super massiccio al centro della galassia M87. A spiegare di che si trattava, sul palco della sede centrale dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, a Roma, c’era anche Elisabetta Liuzzo, radioastronoma valdostana dell’INAF-Istituto di Radioastronomia di Bologna e membro del team internazionale che ha compiuto l’impresa scientifica (nel 2012 ha fatto anche un breve stage nel nostro Osservatorio Astronomico, dedicato non casualmente alle osservazioni di blazar). Quella specie di corona che si vede nell’immagine, arbitrariamente colorata con toni accesi di giallo e arancione, è l’emissione prodotta dalla materia in orbita attorno al buco nero. Parte di ciò che si vede giunge da regioni che non puntano verso di noi, ma la loro emissione ci raggiunge ugualmente perché lo spazio-tempo è così curvato da modificare pesantemente il percorso delle onde elettromagnetiche che possono ancora sfuggire dal “pozzo senza fondo”, facendo fare loro una vera e propria “inversione a U”. Dentro la zona nera centrale giace la singolarità, il buco nero vero e proprio, con massa pari a 2,5 miliardi di volte quella solare.

La cosiddetta “prima immagine” di un buco nero, quello super massiccio al centro della galassia M87 Crediti: EHT Collaboration https://www.eso.org/public/images/eso1907a/
La cosiddetta “prima immagine” di un buco nero

Tutti i buchi neri citati sopra sono a migliaia, milioni o miliardi di anni luce da noi, quindi ampiamente a distanza di sicurezza. Dalle possibili disgrazie del 2020 possiamo depennare quella della Terra inghiottita da un buco nero. Se però volete sapere che cosa accadrebbe se incautamente vi avvicinaste troppo a un buco nero, avete un’imperdibile occasione: lo spiega proprio oggi, alle ore 23, il nostro cosmologo Lorenzo Pizzuti nell’evento “Spaghettification a mezzanotte all’interno della Maratona Sharper 2020 per la Notte Europea dei Ricercatori, che si celebra stasera.

Penrose, Genzel e Ghez hanno ricevuto il Nobel per la fisica nel 2020. Gli statunitensi Kip Thorne, Rainer Weiss e Barry Barish l’hanno ricevuto nel 2017 per la rivelazione di GW20150914. Giacconi l’aveva ricevuto nel 2002. Paradossalmente, le loro ricerche hanno confermato la solidità della teoria della relatività generale, e quindi il genio di Einstein, dimostrando l’esistenza dei buchi neri e delle onde gravitazionali, cioè fenomeni che secondo Einstein non potevano esserci, nonostante fossero suggeriti dalle sue stesse equazioni. Come recita la famosa battuta, nessuno è perfetto.

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