La prima estate dell’incontro era giunta al termine. Settembre non era più da capire e nemmeno da svelare, arrivava in orario come il grigio che si confonde col nero. I colori ammutolivano il piacere un passo alla volta. Il mare l’avevo visto una volta soltanto, per il piacere dei miei capelli e del barista dello stabilimento, intento a riempir bicchieri come alle sagre di paese. Settembre si è portato via un’estate di piacere, con una grazia che i suoi colleghi non hanno e non avranno mai, un centimetro alla volta, un Al Pacino in gran forma.
Le montagne le ho viste poco da vicino, cercando di non farle diventare abitudine o competizione, consapevole della loro presenza, le ho viste sfiorate da nuvole di passaggio, vento in abbondanza e sole a renderle di tutti, di troppi forse, le montagne sole, da sole, non le ho mai sentite lamentarsi di solitudine, beate loro, poveri noi. Le autostrade invece da sole non le ho mai viste, piene di traffico, di buchi e di cambi di corsie, cosa cercano di dirci? Una metafora perfetta per le nostre vite imperfette, e meglio così aggiungerei, direzioni diverse, distanze contrabbandiere di piacere, mete che diventano partenze, un baratto a tutti gli effetti, distratto dal tempo lo accettiamo, come unico premio dopo mesi di lavoro, fame atavica alla quale non sappiamo rinunciare, il piacere nel difetto, elevato a mito assoluto di prosperità, di rappresentazione della nostra forza, l’uscita dal ghetto della monotonia, per entrare nel circo delle vanità più becere, le aspettative rispettate e la riservatezza incompiuta.
Ho incontrato persone meravigliose, peccati ai quali non ho saputo rinunciare, vite alle quali mi sono abbandonato per una notte o poco più, mi sono sforzato di entrare nelle discussioni e ho taciuto quando il rumore era troppo forte, ho fotografato per la memoria e il desiderio, tralasciando l’obbligo ho discusso di una libertà tanto osannata quanto utopica, ho camminato su un tramonto umbro come se fossi fuori da un bivacco valdostano, mi sono sposato con me stesso perché a 36 anni una lista bisogna farla, cancellando la ragione, abbandonandosi a un fiume che quando trova spazio diventa cascata, un luogo sicuro difficile da ammettere.
La prima estate dell’incontro, dopo mesi di letargo, dopo musiche dello stereo, ho ascoltato le chitarre fischiare e le casse ribollire, era il mio corpo che ne aveva bisogno, il mio spirito che si schiantava e urlava, l’abbandono più rivendicato che abbia mai provato.