"La storia di ogni persona vive di luoghi, affetti, idee, progetti, bisogna dare a questa storia la libertà di muoversi, perché dopo tanti anni siamo noi la strada delle nostre storie”.
Con queste parole Ida Desandré apre “Il paese dei ricordi”, dando voce alla propria memoria, e facendosi ancora una volta testimone di un passato che non si può cancellare.
Martedì sera, nell’ambito della serie di eventi organizzata per ricordare il 25 aprile, è stata presentata al pubblico la nuova edizione del libro, pubblicato per la prima volta nel 2000. Ogni breve capitolo è accompagnato dai versi di Roberto Contardo, cantautore e secondogenito dell’autrice. Una pagina dopo l’altra, il paese dove è cresciuta Ida negli anni tra le due guerre prende forma e rivive attraverso i ricordi, diventa il fulcro stesso della narrazione. Eppure Saint Christophe, borgo contadino alle porte di Aosta, non viene, in realtà, mai nominato. Se non fosse per le rare frasi in patois, e per qualche dettaglio menzionato tra le righe, potrebbe essere un qualsiasi paese di montagna, con il forno del villaggio, la scuola, la chiesa, la latteria, tessere di un mosaico parzialmente cancellato dalla modernità, con i suoi anonimi capannoni industriali. Anche la memorabile galleria di persone tratteggiate nella seconda parte del libro risulta familiare, e tipica di un contesto storico e sociale comune a molti paesi tra le due guerre. In filigrana emerge un microcosmo contadino universale, fatto di miseria e di dignità.
Ida Desandré evita accuratamente la trappola della descrizione oleografica e retorica di una falsa età dell’oro, ma con semplicità racconta le difficoltà degli ‘ultimi’, personaggi senza nome, e, come spiega, “senza Storia né Gloria”. Come Cenne, Stefano, cavaliere di Vittorio Veneto, che dopo quattro anni di trincea, tornato alla vita civile, guadagnava qualche soldo ripulendo i letamai, ma che ogni quattro novembre indossava il vestito buono e sfilava orgogliosamente con gli ex commilitoni. Oppure Jesus Christ, barba incolta, vestito miseramente, venditore ambulante, o la solitaria Lanta breusca, “vecchia zia acida”, sbeffeggiata impietosamente dai bambini del paese, o “Ohilà ciao”, cestaio itinerante, o ancora Pizzica Pizzica, emigrato dalla Calabria, che dopo avere zappato i campi altrui dormiva in un fienile. “Io mi mettevo a discutere, non trovavo giusto che un lavoratore non avesse un letto come si deve” ricorda Ida. “Li osservavo, li studiavo attentamente, avevo un affetto particolare per loro: essendo stata cresciuta da mio nonno, dopo la morte di mia madre, provavo un sentimento di empatia per queste persone abbandonate, che nonostante l’isolamento conservavano la propria umanità e la propria dignità”.
Spesso il ricordo degli anni trascorsi a Ravensbrück, Salzgitter e Bergen-Belsen si sovrappone, per un istante, alla rievocazione della vita di paese.. Il sapore e il profumo dei dolcetti al miele e semi di zucca cucinati da suo nonno, e le semplici ricette montanare a base di minestra, patate e formaggio, affioravano alla sua mente durante le fredde serate trascorse, con le altre detenute, a fantasticare sulle ricette della propria terra..
“Recentemente – ha raccontato Ida Desandré – sono tornata a Bergen-Belsen per visitare il nuovo museo dedicato ai deportati, su invito del governo della Bassa Sassonia. Le baracche sono state abbattute, ma ho camminato a lungo nella landa deserta, calpestando una successione infinita di fosse comuni. Mi sembrava di camminare sulla cenere dei morti, l’aria stessa evocava la morte. L’angoscia lucida che ho provato mi ha ricordato che la miseria degli uomini dimenticati è sempre la stessa, ed è quanto ho voluto esprimere in questo libro. Non dobbiamo dare per scontato ciò per cui abbiamo lottato, ciò che abbiamo conquistato il 25 aprile ”.