“Secondo me i terroristi hanno vinto. Uccidendo mio padre hanno assestato un colpo mortale a una nuova stagione nella vita politica del Paese, realmente inclusiva e partecipativa, forzando l’emergere di una forma di governo incentrata sui poteri forti, i grandi interessi, il mercato, e in definitiva, sull’esclusione di una fetta di popolazione dal gioco democratico”. E’ lapidario il giudizio espresso da Agnese Moro, figlia del leader della Democrazia Cristiana ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio del 1978, su una stagione incandescente, che ha segnato profondamente la memoria storica e civile italiana. “Eppure quel modello democratico, stroncato sul nascere, sopravvive ancora, e si esprime, talvolta, nelle piccole realtà locali, di base, nelle associazioni di cittadini che si impegnano in prima persona. In questo senso il terrorismo ha perso la propria battaglia”.
A trent’anni dalla tragica scoperta, nel baule di una Renault 4, del cadavere di Aldo Moro, Agnese Moro, come altri figli e parenti della lunga lista di vittime, illustri e sconosciute, mantiene vivo il ricordo dei cosiddetti “anni di piombo”. Con la sua testimonianza, dai risvolti anche intimi e familiari, afferma con forza un semplice principio: non si uccide mai un simbolo, ma una persona.
La memoria di quegli anni difficili è stata rievocata venerdì scorso, a Gignod, nel salone della Comunità montana Grand Combin, alla presenza di Agnese Moro e della giornalista Annachiara Valle, autrici di un libro incentrato sulla figura di Aldo Moro. La serata è stata organizzata dall’Aiat del Gran San Bernardo e dalla Comunità montana Grand Combin, in collaborazione con Casa Serena CGT.
Agnese Moro ha ricordato la figura del padre, cinque volte presidente del Consiglio dei ministri e presidente della DC, ma anche genitore attento e premuroso, e uomo politico coerente e impegnato. “E’ una presenza – ha spiegato Agnese – sempre viva nel mio ricordo e in quello di chi l’ha conosciuto, anche se purtroppo l’irresistibile potenza mediatica ed emotiva delle fotografie del sequestro, dello stillicidio dei comunicati dei brigatisti, l’attesa snervante, e infine il ritrovamento del corpo, hanno offuscato la sua immagine, la sua eredità politica, l’opera di una vita”.
Pur ribadendo che la responsabilità di un omicidio ricade comunque su chi lo esegue materialmente, Agnese Moro non ha lesinato critiche a come è stato gestito “il caso Moro”. “Ogni volta che si apriva, almeno apparentemente, uno spiraglio per trattare, per tentare di volgere la situazione a nostro vantaggio, tutto tornava al punto di partenza, il governo faceva mancare il proprio appoggio. Anche le indagini sono ricche di punti oscuri. Ad esempio alcune persone, residenti del quartiere dove Aldo Moro è stato tenuto prigioniero, avevano segnalato alla questura strani movimenti, ma non ci sono stati controlli”.
Il capitolo terrorista è stato archiviato assieme a quello delle stragi, delle bombe, di Ustica, e dei mille misteri irresoluti che hanno contrassegnato il clima violento di quegli anni. Una rimozione collettiva rifiutata dai familiari delle vittime. “Noi non accettiamo che i nostri cari vengano dimenticati. Per questo motivo abbiamo apprezzato molto il libro che il Presidente della Repubblica ha dedicato a tutti i morti degli anni di piombo, dando spazio anche a tutti coloro che, a differenza di mio padre, non erano volti pubblici. E’ stato un modo per riconoscere che si tratta di ferite inferte non solo a noi, ma allo Stato, al tessuto sociale del Paese. Tutti siamo stati colpiti, a tutti è stato tolto qualcosa”.