Oggi sono tornato a casa, un passo alla volta, dentro una dimensione talmente convulsa da sembrare statica, ci sono rimasto fino alla fine della luce, quella luce che fa cantare le galline e suonare le sveglie, quella luce che alle 17:47 ha cambiato direzione, illuminando un’altra parte di mondo. Mi ha lasciato così, un metro alla volta dietro creste di montagne attraenti e appuntite, accoglienti e fragili come chi le abita, montagne di stupore come se fosse la prima volta, fatte di donne che non avrò mai e di altre che ho già spogliato, di luci e ombre che ho fotografato e di silenzi che sembrano concerti. Montagne come donne che cercano amore a tutti i costi, altre che sopravvivono grazie al mistero, montagne che non possono difendersi dallo stupro continuo della tecnica, dall’avanzare dello sviluppo, dall’egocentrismo sponsorizzato, mostrandosi sempre più giovani nonostante lo stoico passare del tempo. Montagne che resterei a guardare per ore, ferme, immobili, come quadri di De Chirico, che nulla hanno da spartire con noi.
Ma certo, lo so che l’abbonamento alla fine dei conti vale più di un passaggio singolo, si risparmia, ci si adegua e se lo fanno in cento sicuramente un motivo ci sarà, perchè sprecare energie a farsi domande, a ragionare con la propria testa, a chiedersi qual è il rispetto che la montagna merita se basta mettersi un adesivo addosso per adeguarsi alla “cultura generale” del momento? Sono giorni che vedo su Facebook foto profilo addobbate con lo slogan del momento che recita così: la montagna è vita. Certo, è vita per le bestie che nella sua terra pascono e per gli uccelli che nel suo cielo volano, lo è per i pesci che nelle sue acque sguazzano; elementi tutti di un ciclo perfetto chiamato Natura. La montagna per loro è vita e morte. Per noi invece sarebbe più corretto dire che la tecnica applicata alla montagna è vita, perché senza di lei sarebbe, non per tutti, troppo romantico provare a guardare a quegli ammassi di rocce per puro desiderio di esplorazione e conoscenza.
La montagna è vita, certo, e la vita merita rispetto, la vita di tutti però, non solo di quelli che la montagna la possono frequentare in prima fila, con l’abbonamento. Gli slogan sono facili da indossare, rendersi conto del concreto lo è un pò meno.
Dov’è il rispetto per gli ultimi? Facile andare a Roma a guardare il Colosseo, ma le città non sono solamente i loro monumenti, quelli portano soldi, come un Monte Bianco qualunque alla mercè di tutti, o quasi. I luoghi bisognerebbe imparare a guardarli dagli occhi di chi li abita, quelli che non hanno il simbolo del dollaro nell’iride, quelli che resistono, partigiani di un territorio che troppo spesso risulta tornaconto di una piccola minoranza di gens aisés, confidente del fatto che il denaro possa comprare tutto, non più solo mezzo ma fine ultimo. Abbiamo il dovere di salvare i naufraghi, quelli che affrontano il mare con i gommoni di plastica che vendono nelle edicole, quelli con i polpastrelli corrosi a forza di lavare i piatti, quelli che affrontano la morte come la migliore delle ipotesi, quelli che si fanno i chilometri a portar piatti nel presente perchè il futuro è il più lucido dei sogni, ma è pur sempre un sogno e quando ti svegli non te lo ricordi più. Che vada a loro il nostro rispetto, e a noi se saremo in grado di comprenderlo, di accoglierlo.
Oggi sono tornato a casa e in maniera molto egoista ho pensato che il silenzio della montagna, soprattutto in questo periodo mi piace da morire. Mi piace perchè non sono più abituato ad un’altra dimensione, mi ci fisso, me la cerco ma spesso non riesco ad urlare la mia approvazione. I turni del lavoro mi obbligano a programmare le mosse, come se ogni volta dovessi rubare un uovo Fabergé, l’ultimo.
E se poi scatta l’allarme?