“La guerra in Afghanistan è la guerra più lunga degli Stati Uniti, ed è una guerra persa”. Per approfondire la questione il Forte di Bard ha accolto ieri sera, sabato 2 ottobre, le sincere e tragiche delucidazioni sul tema dei giornalisti Domenico Quirico e Valerio Pellizzari, oltre alle testimonianze dell’ex rifugiato politico afghano Enaiatollah Akbari. Ed è l’ennesima sconfitta di uno dei tanti eserciti che, allettati dalla posizione strategica di questo Paese, tentano di occuparlo e globalizzarlo, noi compresi. Nel 1979 i russi, durante la ritirata, dovettero pagare per non essere umiliati o attaccati, e agli inglesi servirono tre anni di tentativi per rassegnarsi e capire che nessuno straniero riesce a vincere gli afghani.
La guerra contro gli Stati Uniti è cominciata 20 anni fa, con la caduta delle Torri Gemelle, e oggi gli americani “se ne sono andati”. Ma questa “non è una sconfitta qualunque” continua Pellizzari “è una fuga miserabile. Se ne sono andati di notte, come rapinatori”. Perché questa guerra è andata avanti 20 anni anche se era militarmente persa? Per la corruzione degli occidentali.
E’ proprio sulla questione morale e sull’ipocrisia che si infervora l’altro giornalista, Domenico Quirico. “Noi occidentali abbiamo fatto delle grandi promesse all’Afghanistan: togliere il burqa alle donne, mandare tutti i bambini a scuola, poter rivedere a Kabul gli aquiloni e i campi di calcio e risentire la musica. Noi abbiamo promesso delle cose mentendo. Nessuno voleva davvero mettere in pratica questi cambiamenti; abbiamo affidato la gestione della democrazia afghana ad una banda di canaglie, di ladri, di assassini. I soldi che sarebbero serviti a ricostruire ospedali, strade o infrastrutture sono stati affidati a dei banditi.” spiega con foga, slancio e evidente disappunto “Il problema è che alcuni afghani ci hanno creduto, e hanno provato a costruirsi una vita su quello che stavamo promettendo. E’ questo il modo in cui abbiamo aiutato gli afghani: mentendo. Abbiamo aiutato loro a diventare dei mendicanti, dei reietti, dei profughi, dei senzapatria, gente che possiede solo le scarpe e i vestiti che ha addosso! ”
“Dovrei usare anche io quella voce, la rabbia che esprimi tu dovrei averla anche io dentro” riconosce l’ex rifugiato politico afghano Enaiatollah Akbari, che si esprime con un tono calmo ma senza omissioni. “E’ vero, noi abbiamo creduto alle promesse dall’occidente. La mia generazione soprattutto ha creduto alla democrazia: al posto di frequentare la moschea guardavamo concerti in televisione e ammiravamo le ragazze senza velo. Desideravamo creare una connessione col resto del mondo perché per lungo tempo siamo stati isolati, non arrivavano le informazioni e i giornalisti non erano liberi di diffonderle. Dobbiamo fare il conto con la fame e la mancanza di medicinali; questa è la situazione in Afghanistan per le persone comuni. Ovviamente il figlio di un leader talebano non soffre la fame”.
I Talebani non sono mai spariti da quando sono arrivati in Afghanistan. “Mi ricordo molto bene quando sono venuti al potere” racconta Enaiatollah “in un normale attentato potevano morire 50 persone, non si trovava nulla da mangiare, per sopravvivere vendevamo pezzi di plastica o carcasse che raccoglievamo. L’Afghanistan è stato come un pozzo che si è prosciugato, ogni bene e ogni risorsa veniva presa e portata via. Per paura si fa finta di essere soddisfatti. Io quel terrore ce l’ho sempre. Per un talebano si può essere colpevole e per un altro no”.
“C’è speranza?” chiede a questo punto la presidente del Forte di Bard Ornella Badery. “Io non potrei non sperare, questa è la mia nazione” risponde Enaiatollah “So bene che è difficile sperare, io non sono nato in pace, ho vissuto sempre la guerra, ma se non sperassi dovrei anche smettere di lottare.” Il giovane, che ora confida nell’informazione e nell’istruzione, era stato analfabeta fino a 16 anni, quando è arrivato in Italia. “Sognavo di lavorare nelle scuole in Afghanistan. Non l’ho potuto fare, ma adesso sono super felice che i miei libri siano negli zaini dei bambini. Leggendo e studiando mi sento un individuo, senza dovermi etichettare”. Il ragazzo ha scritto due libri, è in Italia dal 2006, si è laureato e lavora, eppure ancora non possiede la cittadinanza italiana. “Quando dopo quattro anni di viaggio via mare sono arrivato qui continuavano a farmi le stesse domande e sapevo che se avessi detto una parola invece che un’altra mi avrebbero buttato fuori dall’Italia” racconta.
Per sostenere la causa del suo Paese, Enaiatollah ha organizzato con tenacia, una manifestazione in Piazza Castello a Torino, per sabato 9 ottobre alle ore 17. “Visto che ci tengo all’informazione, fate girare la voce!” ribadisce al termine del dibattito.
Inoltre, in occasione dell’incontro, sono state esposte nella Cappella del Forte alcune immagini delle opere della street artist afghana Shamsia Hassani. “Ora vive sotto copertura nel suo paese, che non vuole lasciare” specifica Badery. Dal 2000 la situazione delle cittadine afghane è migliorata: la quota di studentesse è passata dal 12 al 55% e in parlamento un seggio su quattro era detenuto da donne, nel 2001 nessuno.
Però in questo ultimo periodo i sogni di emancipazione sono crollati nuovamente. Con gli accordi con gli Stati Uniti che hanno legittimato il ritorno dei talebani “siamo tornati indietro di 20 anni. Le donne se possono se ne vanno” riporta Badery.
Per concludere, “seguite quello che succede in Afghanistan e non facciamo come la politica che dice frasi tanto banali quanto inutili, che non producono nulla” consiglia Pellizzari.