Autonomia differenziata, Louvin: “disinteressarsene, per la Valle, è un errore”

Conversazione, sulle rivendicazioni di alcune regioni del nord di maggiori prerogative di autogoverno, con l’ex presidente del Consiglio e della Giunta ed oggi professore universitario. Tra i temi, gli effetti della riforma e le risorse finanziarie.
Roberto Louvin
Politica

Autonomia differenziata, alcune regioni la bramano, altre la temono e alcune – tra queste, la Valle d’Aosta – non si pongono il problema (o lo fanno al “fotofinish”, com’è avvenuto la settimana scorsa da parte del presidente della Regione Erik Lavevaz). Essere una realtà a Statuto speciale, dalla fine degli anni ’40, consente di seguire la vicenda con un occhio solo?

Il dossier ha, prima ancora che un carattere politico, una forte valenza tecnico-istituzionale, dal momento che attiene ai rapporti tra Stato e Regioni e tra queste ultime. Per questo, ne abbiamo parlato con Roberto Louvin, avvocato, tra gli anni ’90 e i 2000 Presidente del Consiglio Valle e della Giunta regionale e dedicatosi alla carriera universitaria, come professore di Diritto pubblico comparato, dopo la fine dell’esperienza politica.

Oggi insegna all’Università di Trieste (i suoi corsi riguardano il Diritto pubblico comparato e il Diritto dell’Unione europea), ma le particolarità dell’autonomia valdostana restano al centro dei suoi studi e di varie pubblicazioni. Paradossalmente, non tutte sono note in Valle e gli appunti che Louvin ha da muovere alla nostra regione sul terreno dell’autonomismo non mancano…

Professor Louvin, il dibattito sul riconoscimento di forme di autonomia differenziata alle regioni ordinarie non è recente. S’impone dopo il risultato del referendum costituzionale del 2016 e prende quota con le iniziative, anch’esse in parte referendarie, di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, nel 2017. Nonostante sia nell’agenda pubblica da anni, il tema in Valle d’Aosta non pare però raccogliere particolare attenzione, forse ritenendo che l’autonomia speciale collochi la nostra regione su un piano diverso e, in qualche modo, superiore. Eppure, una coscienza dell’autogoverno dovrebbe appartenere alla comunità valdostana e più di un motivo consiglierebbe di interessarci…

Ricordiamo intanto qual è il tema di queste “forme di autonomia differenziata per le regioni ordinarie”. La riforma costituzionale del 2001 ha previsto che, in aggiunta alle competenze generali di cui godono attualmente, le 15 regioni ordinarie (cioè tutte le regioni eccetto Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta) possano ottenere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Queste materie riguardano alcuni ambiti attualmente riservati allo Stato (tra cui spiccano la tutela dell’ambiente e l’istruzione) e tutti quelli che già oggi sono di competenza di queste regioni e che verrebbero di conseguenza ampliate.
La spinta verso questa “geometria variabile” del regionalismo italiano viene soprattutto dal Veneto e dalla Lombardia, mentre le regioni del sud sono ripiegate in una posizione difensiva temendo conseguenze a loro danno da quest’operazione.
È difficile che temi come questi scaldino i cuori e appassionino l’opinione pubblica da queste parti. Tanto più che, in apparenza, questo non sembra toccare direttamente regioni come la nostra.
Disinteressarsene, però, è un errore: la storia ha dimostrato che quando avanza l’attuazione delle autonomie ordinarie possono sempre esserci ripercussioni anche sulle altre: alla fine degli anni 70, le regioni speciali si trovarono in forte difficoltà e furono di fatto superate dalle regioni ordinarie a causa della rigidità dei loro statuti e del ritardo nelle norme di attuazione.
Oggi il problema si pone in maniera diversa ma ugualmente problematica: c’è il fondato rischio che si realizzi uno scambio politico, consentendo da un lato il rafforzamento delle autonomie territoriali del nord e dall’altro una più forte incidenza degli strumenti di ingerenza di cui dispone lo Stato per tutelare l’interesse nazionale e le esigenze di unità giuridica ed economica, insieme al passaggio ad un regime presidenziale.
In questo nuovo scenario, dove finisce l’autonomia speciale della Valle d’Aosta? Questo mi sembra dover essere il punto da cui dovrebbe partire il nostro ragionamento.

L’indagine conoscitiva, svolta al riguardo dalla Commissione bicamerale per le questioni regionali del Parlamento, evidenzia come l’attivazione di forme e condizioni particolari di autonomia presenti significative opportunità per il sistema istituzionale nel suo complesso, oltre che per la singola Regione interessata. In cosa consistono queste opportunità per quelle realtà che già sono titolari di un’autonomia speciale?

La questione è complessa e gli unici ad averla colta fin dall’inizio sono i sudtirolesi della provincia di Bolzano.
Da anni infatti si battono perché questo meccanismo di estensione dei poteri di cui beneficiano sulla carta soltanto le altre regioni possa essere utilizzato anche a loro vantaggio. Hanno studiato bene la questione e pensano di poter trarre qualche beneficio soprattutto in materia di tutela dell’ambiente acquisendo nuove competenze.
Finora non ho sentito parlare di nessuna precisa richiesta al riguardo da parte della Valle d’Aosta, ma penso che sarebbe interessante sapere che cosa ne pensano le nostre istituzioni che mi sembrano al momento su posizioni molto attendiste.

Lo stesso documento mette in luce che la valorizzazione delle identità, delle vocazioni e delle potenzialità regionali determina l’inserimento di elementi di dinamismo nell’intero sistema regionale e, in prospettiva, la possibilità di favorire una competizione virtuosa tra i territori. Qual è la posta in gioco, per la nostra regione, in questa competizione? Le Autonomie speciali, in uno scenario del genere, dovrebbero presentare esperienza pionieristica ed essere esempi virtuosi, ma lo sono effettivamente?

Parlare di dinamismo e di competizione virtuosa per la Valle d’Aosta fa un po’ sorridere.
Oggettivamente, la Valle è ferma da parecchi anni, non conduce più politiche originali e fortemente innovative e si limita a svolgere perlopiù attività esecutiva ordinaria nel quadro normativo generale dettato dallo Stato. Il fenomeno è diffuso in Italia, ma da noi risulta particolarmente visibile se confrontiamo la situazione attuale con quella degli ultimi decenni del Novecento.
Fra gli anni 70 e gli anni 2000, la nostra Regione è stata un vero laboratorio – penso alle autonomie locali, al territorio e all’ambiente, al sistema dell’assistenza e della sanità territoriale – al punto da diventare un riferimento importante per tutte le altre regioni. La spinta però si è fermata una ventina d’anni fa e la crisi politica in cui si dibattono le attuali legislature aggrava ulteriormente la situazione. Quando leggo i contenuti delle leggi approvate da altre regioni, anche a statuto ordinario, mi accorgo con molto rammarico di quanto il divario stia purtroppo aumentando e di quanto abbiamo perso velocità.
In alcuni casi si è rinunciato ad esercitare dei poteri che abbiamo. Qualche volta ci si è accontentati di tenere semplicemente fermo un quadro generale di riferimento che nel frattempo è invecchiato (penso, primo fra tutti, a quello degli strumenti di governo del territorio) mentre altri hanno fatto grandi passi in avanti. Anche dalla sonora (e in parte eccessiva) bocciatura da parte della Corte costituzionale (sent, n. 37 del 2021) della legge regionale sulle misure di contenimento della diffusione del coronavirus nelle attività economiche e sociali andrebbero tratti degli insegnamenti che temo finora non siano stati esattamente colti.

L’autonomismo – la stessa storia della Valle d’Aosta lo dimostra – è un moto che parte dal basso, da un sentire della comunità, assolutamente trasversale rispetto alle collocazioni politiche. E’ vero che in due dei tre casi delle regioni che hanno chiesto l’avvio del processo di cui al terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione alla base vi è (anche) il risultato di un referendum, però il “la”sembra essere stato dato più a livello dei governi locali, anche nella consapevolezza di un determinato consenso sul territorio (e di una specularità rispetto al governo nazionale). Può essere considerato un presupposto “sano” per una modifica dell’assetto istituzionale?

È normale che in alcuni territori, penso in particolare al Veneto, il governo regionale si faccia interprete di una richiesta forte di maggiore autonomia. Alcune delle loro televisioni locali trattano quasi quotidianamente il tema e riportano persino in sovrimpressione il numero dei giorni trascorsi dall’inizio della procedura per il trasferimento delle competenze, per sottolineare i ritardi di Roma nel concedere queste più ampie competenze.
Vivo buona parte dell’anno nella vicina regione del Friuli Venezia Giulia dove questo processo di rivendicazione da parte dei vicini veneti è complessivamente capito e non provoca particolare disagio.
C’è semmai da chiedersi perché da noi non ci sia più passione e interesse per questi temi. Come mai tutti i tentativi di riforma istituzionale della nostra autonomia sono finora puntualmente falliti? Perché questi temi sono assenti dall’agenda delle maggiori forze politiche? Perché di fronte alle pressioni che puntano al cambiamento le istituzioni operano costantemente in difesa e frenano la trasformazione?

Le materie su cui è possibile il riconoscimento di forme di autonomia sono tutte quelle attribuite alla competenza legislativa concorrente, ma anche alcune che, seppur in numero limitato, ad oggi erano esclusività dello Stato. Parliamo dell’organizzazione della giustizia di pace, delle norme generali sull’istruzione, della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Non sussiste il rischio della creazione di un Paese “a più velocità”, specie in ambiti che presentano un impatto diretto sulla vita del cittadino?

Il Paese è già, nei fatti, a più velocità. Non è la stessa cosa farsi curare a Catanzaro o a Milano. Il divario tra il prodotto interno lordo del Sud e del Nord era, e resta, impressionante.
Il punto è come consentire a tutte le regioni, e soprattutto quelle più vivaci economicamente, di dotarsi di politiche e servizi che le mettano in condizione di riuscire a competere con il resto d’Europa, senza fragilizzare ulteriormente le parti più deboli del Paese. Si tratta in altre parole di fare sintesi tra le esigenze di autonomia e decentramento dal lato da un lato e di solidarietà e coesione dall’altro.
Per questo è fondamentale definire rapidamente livelli essenziali delle prestazioni (LEP) verso tutti i cittadini e qui è sicuramente lo Stato il responsabile di questo gravissimo ritardo. Perché il Parlamento non li ha ancora fissati, quando la loro necessità era già indicata espressamente nella riforma costituzionale del 2001? La manovra promossa dalla Lega attraverso il ministro Calderoli punta a risolvere la questione del trasferimento di maggiori competenze bypassando sostanzialmente il Parlamento che teme possa diventate una palude da cui non uscirebbe più.
La mancanza dei LEP è diventata ormai evidentemente un pretesto – come lo fu negli anni della creazione delle regioni ordinarie l’attesa delle mai adottate “leggi cornice”- per rinviare alle calende greche l’attuazione di un sistema voluto, ricordiamocelo, in un’epoca in cui in Italia si parlava quasi unanimemente, due decenni fa, della necessaria e imminente trasformazione dell’Italia in un paese federale. Sembra passato un secolo…

Uno degli aspetti più delicati del dibattito sull’autonomia differenziata è il tema delle risorse finanziarie. Questo ci riporta ad un punto che, in Valle d’Aosta, è stato oggetto anche di tensioni con lo Stato: la correlazione tra funzioni e risorse. Un versante che porta con sé, tra i tanti, due interrogativi. Il primo: è questo uno dei motivi per cui le regioni del sud (con contesti economici meno industrializzati ed imponenti rispetto a quelle del settentrione e quindi forza negoziale diversa) non sembrano particolarmente “accese” sul punto?

La domanda è posta in termini a dir poco diplomatici: le regioni meridionali non sono soltanto “poco accese” sul punto, ma sono “assolutamente ostili” e sono già sul piede di guerra. Il loro timore da sempre e di perdere risorse. Purtroppo, la maggior parte di esse non è riuscita a sviluppare, durante tutta l’esperienza regionale che hanno avviato a partire dagli anni ‘70, uno spirito autenticamente autonomista.
Ci sono alla base culture diverse in termini politici: dal Sud del Paese si continua guardare a Roma come ad un faro, mentre l’amministrazione e l’economia delle regioni del Nord pensano veramente all’autogoverno come condizione essenziale di sviluppo.
Ridurre tutto ad una questione di egoismo è sbagliato, come permettere alla bassa politica di parlare solo alla pancia dell’elettorato con facili slogan e di soffiare sul fuoco.

L’altra questione riguarda, più strettamente, la nostra regione. La Valle d’Aosta nel 2010 ha ridisegnato, attraverso un accordo sottoscritto con il Governo, i meccanismi del riparto fiscale. Il trasferimento dell’Iva da importazione si è ridotto gradualmente, fino a scomparire alcuni anni fa. Da profondo conoscitore della materia, come giudica l’attuale assetto dei rapporti finanziari tra la Valle e lo Stato, in assoluto e rispetto agli equilibri che potranno negoziare le regioni che siederanno al tavolo dell’autonomia differenziata? Non esiste il rischio che i numeri piccoli finiscano con il penalizzarci? In fondo, la Valle ha bisogno dell’intervento Statale per compensare alcuni squilibri determinati dalle dimensioni e dalle caratteristiche del territorio montano…

Finanziariamente, la Valle d’Aosta è da sempre in una condizione problematica.
È un territorio che per assicurare un elevato livello di servizi, di sicurezza territoriale e di sostegno alle attività economiche richiede più risorse di quante non sia effettivamente in grado di produrre da sola. È fondamentale poter fruire dei 10 decimi di alcune imposte, ma, come mi disse un po’ sbrigativamente un esponente politico del governo nazionale qualche anno fa, “dovete sempre ricordarvi che i 10 decimi di zero sono pari a zero”.
Il riparto fiscale attuale, per quanto vantaggioso, si fonda sul presupposto che la Valle sia in grado di generare ricchezza, ma quando la sua economia soffre, sono le finanze pubbliche di riflesso a sopportare gravi conseguenze.
Nella sua architettura generale, questo riparto risale ancora al 1981 e andrebbe ripensato in alcune parti. Negli ultimi due decenni, infatti, il livello di risorse liberamente disponibili è costantemente diminuito e sono costantemente cresciuti gli interventi finanziari speciali da parte dello Stato. Se mettiamo in fila gli effetti della crisi economica del 2010-2012, della pandemia e adesso del PNRR, la compressione dei margini di discrezionalità politica risulta essere evidentissima.
Un vero dibattito su questi temi, però non esiste.
La Valle è purtroppo priva di centri studi, di sedi in cui si rifletta seriamente e continuativamente su questi argomenti, magari mettendo intorno a un tavolo studiosi, operatori economici e soggetti istituzionali per immaginare strategie di uscita da questa situazione.

Una risposta

  1. Complimenti a Christian. Un articolo molto completo su un problema sventolato spesso e mai approfondito con la dovuta serietà e continuità.

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