Fantasmi Lynchiani nell’estetica musicale di Lana Del Rey

Dieci anni fa usciva Ultraviolence di Lana Del Rey, acclamato come uno dei migliori album dello scorso decennio. In questa puntata, Ludovico Franco coglie l’occasione dell’anniversario per discutere il rapporto della cantautrice americana con il cinema, in particolare quello di David Lynch, con cui emergono interessanti analogie.
Lana del Rey
Incontri ravvicinati con AIACE

Dream pop: con questo termine le riviste e i siti tentano di concentrare l’estetica e la poetica di Lana Del Rey, una delle più influenti artiste contemporanee, celebre dal 2011 per il successo del singolo Video games. Dream pop è una definizione più che coerente, perché rievoca un mood sognante, sospeso, evanescente, nonché espressioni fondamentali nella sua discografia, come American dream, specie la sua dark side (come canta in Without you). La sua opera si adatta molto bene anche all’idea di cinematic music: canzoni che mettono in scena immagini di vivida potenza, ci riportano a iconografie già viste, con uno stile che manifesta caratteristiche molto simili all’esperienza estetica della settima arte. Non a caso lei stessa definisce la sua musica Hollywood sadcore”.

Non si tratta solo di semplici riferimenti diretti e citazioni testuali al cinema (che spaziano tra How green was my valley, Pink Flamingos, Paris, Texas, il legame cruciale con Lolita), ma spesso di veri e propri furti e rielaborazioni: all’inizio di 13 beaches usa l’audio di un monologo da Carnival of souls; gli ultimi suoi concerti sono stati aperti con musiche da Moulin Rouge o dal Padrino; Interlude – The trio è un omaggio kitsch a Ennio Morricone; il video di Doin’ time recupera Attack of the 50 foot woman. Per non parlare delle canzoni che ha realizzato per numerosi film: l’immortale Young and beautiful, Once upon a dream, Watercolor eyes, The season of the witch. Tuttavia, al di là di questi rapporti per via diretta con il cinema, si potrebbe guardare ai suoi videoclip e ai suoi testi sotto un’ottica più obliqua e puramente cinematografica.

Alcuni dei suoi videoclip hanno segnato un passo significativo per la musica pop. A differenza di quei cantanti che producono video laccati e impersonali, Lana sa che forma e contenuto devono adeguarsi e corrispondere: così i suoi video sono manifestazioni di uno stile personalissimo, in molti casi volutamente e dichiaratamente home made, come dimostra la presenza ricorrente della sorella Chuck alla regia. Prendiamo Video games: il video è un montaggio di cose (mai) viste, che delineano un’atmosfera e un immaginario precisi, di un’America costruita sui ricordi involontari, che abita i viali del tramonto all’ombra dell’onnipresente scritta “Hollywood”. Sono stralci di un passato che può solo essere rievocato tramite le immagini, vero soltanto se filmato. Lana ha compreso il medium e lo ha adattato, oltre che alla sua poetica intimista, alla contemporaneità, dimostrando di essere una delle più lucide videostar del panorama attuale. Su questa linea stilistica realizza anche altri video, tra cui Honeymoon e Norman Fucking Rockwell, dove il tutto vuole sembrare ripreso con una pellicola in super 8mm, quella che le famiglie americane più abbienti acquistavano per riprendere le vacanze. Scatta istantanee di una gioventù di giri in macchina per le strade della metropoli, di messaggi vocali mandati nel cuore della notte, di pianti e sbronze nei retro di Luna Park abbandonati.

Di tutt’altra natura è il cortometraggio Tropico, gemello di Ride. Un’allucinazione kitsch e artificiosa vicina al Coppola barocco (quello di Dracula e One from the heart, per capirci): Lana, vestita da vergine Maria, prega John Wayne di perdonarla per i suoi peccati, in un paradiso perduto in cui ci sono Elvis, Marilyn, Gesù, Adamo ed Eva e un unicorno che sembra il cavallo di Twin Peaks. Una visione partorita dall’americano medio degli anni ‘50, con i suoi dei da venerare. Ma presto arrivano i demoni del peccato, così Tropico si trasforma in una parabola biblica sulla discesa di Eva dalla terra degli dei in quella dei mostri: Los Angeles. Dark Paradise, città degli Angeli caduti, belli e dannati, abitata da gangster, sad girl, easy rider, biker e ribelli senza causa. Da coloratissima allucinazione così vira verso il neo-noir urbano.

Qui emerge il legame fondamentale con David Lynch, di cui il regista è consapevole, come dichiara in un’intervista: «Lana Del Rey, she’s got some fantastic charisma and it’s like she’s born out of another time. She’s got something that’s very appealing to people. And I didn’t know that she was influenced by me!».

Lana, all’anagrafe Elizabeth Woolridge Grant, come Rita in Mulholland drive che vede un poster di Gilda con Rita Hayworth, sceglie il suo nome prendendolo da una diva di Hollywood: Lana Turner. Per imprimere ancora di più la sua identità artistica nell’immaginario statunitense, aggiunge Del Rey, ispirandosi al modello di una Ford. I nomi sono importanti. Anche Lynch lo sa bene e attinge a piene mani al periodo con la maggiore capacità di generare mitologie: il cinema classico. Dorothy Vallens richiama la fanciulla con le trecce del Kansas, mentre Laura Palmer rimanda, forse, alla Laura di Preminger. Queste protagoniste femminili, a cui si può aggiungere la Lula di Cuore selvaggio, sembrano uscite da album come Born to die, Ultraviolence o Norman Fucking Rockwell. Sono ragazze interrotte, vittime della violenza maschile, ma terribilmente tormentate dall’amore, che è sempre una fragile candela al vento. O un fiammifero, come i molti che vediamo nei film di Lynch. Lana si perde per i sentieri selvaggi californiani come Dorothy in Velluto blu, incapace di liberarsi da figure paterne problematiche (di cui i film di Lynch sono pieni, come ha notato Zizek). La cantautrice ha uno stretto rapporto con il regista di Missoula, come dichiarano le citazioni dirette a Wild at heart o Blue velvet nelle canzoni omonime e lo spot pubblicitario del 2012 in cui Lana canta una cover della canzone di Bobby Vinton che ricalca manieristicamente le atmosfere, i personaggi e i feticci lynchiani.

 

Anche il video di Burning desire mette in scena elementi ricorrenti del regista: starlet dall’aspetto vintage, tende rosse, dissolvenze, sentimentalismi retrò, estetiche malinconiche, figure distorte e luoghi comuni dellAmerica suburbana. Per certi versi, Blue jeans, Music to watch boys to, White dress, Arcadia e Chemtrails over the country club sono tipicamente lynchiani, oltre allo stile musicale, specie in Honeymoon che, tra il jazz-noir e il dream pop, ricorda lo stile sospirato di Julee Cruise e Angelo Badalamenti, fedeli collaboratori di Lynch.

Scavano entrambi nel lato oscuro del sogno Americano: «there’s no more chasing rainbows», canta in Get free, ricordandoci il rapporto indissolubile tra Lynch e Il mago di Oz. Oltre l’arcobaleno ci sono violenza inaudita e traumi psicologici. Il riportare in vita il glamour anni ‘50 non è un tentativo nostalgico fine a sé stesso di reimmaginare il “migliore dei mondi possibili”, ma equivale a dichiararne il ribaltamento nel “migliore dei mondi impossibili”, quello dei sogni, appunto, e non della realtà. Gli USA dei magnifici anni ‘50 sono solo nei film ed entrambi lo sanno bene. Si perdono nelle atmosfere old money solo per mostrare la malinconia soggiacente, rielaborare e distorcere gli archetipi del mito. Come nei film noir, il loro universo morale è permeato da un profondo senso di corruzione e oscuro romanticismo, raccontano gli angoli bui, realmente bui, dell’american dream, la facciata immacolata dietro cui si nasconde il male e l’impossibilità dell’amore. Si pensi all’incipit di Velluto blu: all’apparenza vediamo giardini curati dietro staccionate ornate di rose profumate, ma nel profondo si nascondono insetti osceni che si contorcono sopra orecchie mozzate.

Di Hollywood restano solo le ombre, le strade perdute, il retro della sua enorme insegna. È la fabbrica dei sogni che illude i suoi figli che, delusi, si gettano dall’alto delle sue immense lettere: Lust for life con il verso “climb up the H of the Hollywood sign” si riferisce al triste suicidio di Peggy Entwistle, che si gettò, a soli 24 anni, dalla lettera H dell’insegna. Lo scarto abissale tra splendore e orrore talvolta raggiunge effetti ironici, come nel caso di God bless America, in cui udiamo suoni di spari ogni volta che Lana pronuncia la parola “America”, per segnare l’inscindibilità degli USA dalla violenza. L’arte di Del Rey e Lynch sembra operare in uno spazio in cui la verità si svela e risiede nell’irreale. L’interesse per l'”autentica” America è mediato dalla consapevolezza che gli americani preferiscono il mondo di immagini mitiche coniate da Hollywood piuttosto che la realtà. Lana in questo senso dialoga con le figure emblematiche degli anni ‘50 e ‘60: il James Dean in “blue jeans, white shirt” di Gioventù bruciata, Nancy Sinatra, Marilyn, il selvaggio Marlon Brando, Elvis e Priscilla, Jackie e John (si veda in questo senso la riproduzione storica e perturbante in National anthem, simulacro del delitto Kennedy, che rielabora l’incubo americano, ancor prima del sogno). Per lei queste figure archetipiche di un paese sono immortali e poggiano su radici solidissime nella cultura popolare, perché «Hollywood legends will never grow old».

Fondamentale è il suo album più bello e acclamato, Norman Fucking Rockwell. Il titolo riprende l’artista Norman Rockwell, che amava ritrarre l’America per come questa voleva vedersi: case e famiglie dai colori pastello, tutti sorrisi, gli scheletri ben sigillati negli armadi. Esattamente le immagini patinate che Lynch cerca di ribaltare mostrando il putrido e destabilizzando lo spettatore nei suoi viaggi psichedelici nel buio profondo. Un viaggio analogo a quello che ci trasmette il sonoro di A&W o Venice Bitch, corsa accelerata tra i reticoli d’asfalto della onnipresente L.A. Così quel fucking tra nome e cognome ha il potere di un vento (forse lo stesso che ha gettato Dorothy nel mondo di Oz?) che vuole spazzare via quelle illusioni mitiche, le immagini edulcorate delle riviste, il sole della California e i suoi desideri infranti.

Gemello di questo album è Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd?, che sin dal titolo chiama in causa l’ascoltatore e lo riporta in un’epoca altra, decadente e ricoperta dalla polvere del tempo, ma che non va dimenticata. Di questo album ha realizzato soltanto un video, per la canzone Candy Necklace, forse il capolavoro audiovisivo di Lana, nonché uno dei più interessanti degli ultimi anni. Si presenta come un testo estremamente complesso e stratificato, un mix postmoderno di melò in stile Sirk, noir classici con gangsters e dark ladies, star hollywoodiane (Veronica Lake, Marilyn Monroe), casi di cronaca nera (la Black Dahlia) e il metacinema dei backstage di Mulholland drive e Inland empire. Il finale è un corto circuito tra realtà e immaginazione: Lana, vestita come Priscilla Presley, si fa fotografare sulla walk of fame sopra una stella con il suo nome, anche se in realtà non esiste: «lights, camera, action».

Questa ambivalenza tra realtà e immaginazione è uno dei punti cruciali per capire la sua poetica e quella di Lynch: in National Anthem canta «blurrin’ the lines between real and the fake». Esatto: sfumare, confondere, sfocare questi confini, magari con dissolvenze marcate, così che il sogno possa diventare realtà, ma solo nella terra promessa della West coast:

«‘Merican dreams came true somehow
I swore I’d chase until I was dead
I heard the streets were paved with gold
That’s what my father said
No one even knows what life was like
Now I’m in LA and it’s paradise»

Così canta in Radio. Lana muta col passare degli anni la sua ricerca estetica e indaga a fondo il cuore pulsante del rapporto ambiguo con il suo paese e afferma: «I’m still looking for my own version of America». Un’autentica dichiarazione poetica.

di Ludovico Franco 

Una risposta

  1. articolo bellissimo, una recensione a 360 gradi dell’artista che ammiro molto. leggendolo sono emerse in maniera lampante e concreta tutte le percezioni che avevo a livello inconscio accumulati solo ascoltando la sua musica. grazie

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