Era il 4 ottobre 1964, sessant’anni or sono giusti giusti. Le autorità inaugurano la A1, il nastro che collega Milano a Napoli, 755 chilometri, 113 ponti e viadotti, 572 cavalcavia, 56 aree di servizio. Il giorno precedente piove a dirotto, ma il maltempo viene interpretato come un auspicio, subito diventa l’Autostrada del Sole.
Con un autentico riferimento geografico, ma soprattutto come segno di speranza – diremmo quasi una certezza – di un concreto progresso economico e sociale dopo il disastro della guerra. Il Sole quindi come desiderio di luce, al pari del “Volare” di qualche anno prima, cantato con entusiasmo contagioso da Domenico Modugno, un inno alla ripresa, alla rinascita.
Le macerie si allontanano e inizia il boom, che per decenni ci apparve senza fine. Milano e Napoli non erano più così distanti, l’unificazione del Paese martoriato poteva anche passare dall’asfalto, anche se poi non fu esattamente così. Ma sfrecciare sulla A1 rappresentava l’uscita definitiva dagli anni cinquanta della faticosa ricostruzione, delle coabitazioni, della scarsa istruzione.
L’automobile si imponeva come oggetto di riscatto e divenne presto – fatto non precisamente commendevole – anche una prosecuzione del sé. Dovunque si parlava di motori. Nella pubblicità, con l’attore Ernesto Calindri che sorseggiava un noto amaro “contro il logorio della vita moderna” assiso a un tavolino nel centro di un nugolo di automobili. Nel cinema, con Alberto Sordi (“Thrilling”) e con Walter Chiari (“Il Giovedì”).
E nella musica. “Un’estate fa” di Franco Califano (“L’autostrada è là ma ci dividerà | L’autostrada della vacanza Segnerà la tua lontananza”), cover di “Une belle histoire” di Michel Fugain e Pierre Delanoë.
È lo sperato abbandono dello strapaese, è l’apertura al mondo, seppure ancora tutto da scoprire e da perfezionare. E dove ci si poteva trovare, su un’autostrada? Semplice. All’Autogrill. L’Autogrill di “Arda”, dove si pranzava sul ponte che collegava le due carreggiate. Noi in alto a dominare la scena delle macchine che ci scorrevano sotto, quasi a guardare un acquario. Qualcosa di effettivamente mai visto.
In coda alla cassa le lamentazioni erano poche, ci si sentiva complici di un progetto, di un avvenire. Sguardi empatici, anche furtivi, “Une belle histoire” racconta proprio di un incontro profondo e tragicamente fugace.
Oggi le sensazioni sono ovviamente del tutto diverse, ma allora da quei tavolini ci sembrava di essere partecipi di un progresso presumibilmente inarrestabile, di essere attori protagonisti di un presente travolgente, che ci abbracciava e ci trascinava verso le sorti magnifiche e progressive.
Dopo tanti anni, ci rimane un senso di nostalgia per la speranza che ci animava, misto alla disillusione per quanto non si è avverato, dal punto di vista sociale e culturale. Oggi, quella complicità a volte mestamente smotta in egolatria sbruffona, il progetto di un domani migliore appare tramontato, Nord e Sud non sono ancora uniti nei loro destini. Comunque, buon compleanno, Autostrada del Sole, ci hai fatto sognare.