Nel gennaio 2021 era stato condannato dalla Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Valle d’Aosta a versare all’Agenzia delle Dogane e Monopoli la somma di 397.079,20 euro. Protagonista del procedimento il titolare di una ricevitoria del lotto situata in Valle d’Aosta che, secondo la Procura contabile, non aveva versato all’erario i proventi delle giocate effettuate, nella sua attività, nell’arco di quattordici giorni del gennaio 2019.
L’uomo, tramite il suo difensore (l’avvocato Davide Sciulli di Aosta), ha impugnato quel verdetto, ma il suo ricorso è stato respinto dalla terza Sezione centrale d’appello della Corte, che ha così confermato (con una decisione depositata nelle scorse settimane) la sentenza del grado precedente. Sono molteplici i motivi di censura su cui si reggeva l’opposizione al pronunciamento dei giudici di piazza Roncas.
Giudizi penale e civile favorevoli
In prima battuta, sosteneva il ricorso, il titolare della ricevitoria era stato assolto dal reato di peculato in sede penale e in sede civile il Tribunale di Torino aveva anche “accolto l’opposizione avverso l’ingiunzione di pagamento emessa dalla Agenzia Dogane e Monopoli”, per un “importo pari alla somma per cui è causa e per il medesimo periodo di giocate di riferimento”. Questa seconda decisione, in particolare, nell’impostazione difensiva, avrebbe escluso la responsabilità del gestore nei confronti dell’erario.
Per i magistrati d’appello, però, va rilevata “la totale divergenza degli interessi tutelati dal giudice contabile e da quello penale”, che “comporta la totale autonomia dei relativi giudizi”. Se “la configurabilità del reato di peculato” è stata esclusa per la “mancanza di un elemento costitutivo: il denaro altrui di cui appropriarsi in ragione dell’ufficio”, lo stesso fatto, agli occhi del giudice contabile, “potrebbe non escludere la configurabilità del danno erariale”, essendo “preposto a sanzionare non già l’appropriazione di denaro altrui ma l’omesso riversamento di provvista nelle casse pubbliche”.
Al riguardo, la sentenza precisa che “la gestione del gioco del lotto” è “riservata allo Stato (gestita in proprio o a mezzo di concessionario) ed i relativi proventi costituiscono entrate per il pubblico erario, essendo indicati tra le voci di entrata del conto consuntivo statale”. Al riguardo, “i titolari dei punti di raccolta (concessionari), avendo la materiale gestione di pubbliche risorse sono considerati agenti contabili”, quindi – per la Corte dei Conti – sottoposti all’obbligo di riversamento dei fondi.
La diagnosi di ludopatia
Il ricorso nell’interesse del titolare sosteneva poi che “la diagnosticata dipendenza patologica del gioco d’azzardo (ludopatia)” avrebbe portato l’uomo “a giocare smodatamente e per le ingenti somme di che trattasi, senza avere il controllo della situazione”. Nella ricostruzione difensiva, la patologia diagnosticata (per cui è stata prodotta in sede d’appello anche documentazione sanitaria), “unitamente agli altri problemi personali, avrebbero escluso” la “capacità di intendere e volere” dell’uomo chiamato a giudizio.
Secondo la sentenza d’appello, tuttavia, “l’attore pubblico ha chiamato in giudizio l’odierno appellante per non avere lo stesso riversato, per due distinte settimane contabili, i proventi delle giocate effettuate presso la sua ricevitoria lotto”. Ciò va tenuto distinto “dall’evento ‘giocate’” e, dopo aver sottolineato che la difesa del titolare “ha prodotto unicamente certificazione sanitaria postuma rispetto ai fatti”, la sentenza conclude che “non è stato dimostrato infatti” che il titolare “non comprendeva il suo ruolo di agente contabile e gli obblighi da esso derivanti”. Da qui, la bocciatura anche di questo tema del ricorso e la conferma della sentenza di primo grado contabile.
2 risposte
Se va bene questo articolo l’abbiamo capito in due 😅
Bravissimo complimenti!!