L’inchiesta della Procura sulla gestione dell’emergenza Covid-19 in varie case di riposo e strutture sanitarie valdostane ha visto accertamenti, dall’esplosione della pandemia all’ondata più recente di casi, su 118 morti di ospiti (70 dei quali dalla positività accertata) e su 6 casi di contagio. Ne è derivata l’iscrizione nel registro degli indagati di 13 tra legali rappresentanti, gestori e direttori sanitari, per le ipotesi di reato (contestate a vario titolo) di omicidio colposo ed epidemia colposa. Concluse le investigazioni, l’epilogo è la richiesta di archiviazione inviata al Gip, alla fine dello scorso maggio, dal pm Francesco Pizzato, titolare del fascicolo.
Perché archiviare
Criticità, dalle indagini, ne sono emerse in diverse strutture, in alcuni casi anche definite gravi. Però, relativamente al delitto di epidemia colposa – sottolinea il sostituto del Procuratore capo Paolo Fortuna – nelle undici pagine dell’istanza al Tribunale, “la giurisprudenza di legittimità ha a più riprese evidenziato che ‘non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione’”, mentre l’inchiesta “ha evidenziato esclusivamente condotte colpose di tipo omissivo”. Relativamente alle morti degli ospiti, invece, “non è possibile accertare con certezza” la “sussistenza di un nesso” tra “le condotte colpose dei responsabili delle strutture e tali eventi”.
Una conclusione cui la Procura giunge ribadendo che “le conoscenze scientifiche attualmente disponibili non offrono dei sistemi per individuare con certezza il momento del contagio di ogni singolo soggetto, né di identificare le modalità con cui è avvenuta l’insorgenza della malattia” e, pertanto, “non è possibile stabilire al di là di ogni ragionevole dubbio” che il contagio sia riconducibile “a specifiche condotte colpose degli indagati”. Oltretutto, “i responsabili delle strutture si sono trovati ad affrontare una pandemia che ha colto impreparato il mondo intero”.
A rendere ancor più problematico individuare e perseguire eventuali responsabilità è il fatto che “a causa della situazione di grave emergenza verificatasi nella primavera del 2020, non è stato possibile eseguire” sulle vittime “un esame autoptico” e, pertanto, “non è possibile escludere in termini assoluti che tali individui, anche nei casi di accertata positività al Covid-19, siano deceduti per altre cause e che, dunque, il virus, pur essendo presente nel loro organismo, non abbia giocato un ruolo nel determinismo del decesso.
La “permissività nelle visite” al Refuge
Quali sono, al di là della mancata contestazione di reati, le criticità appurate dagli inquirenti? L’inchiesta – svolta con controlli dei Carabinieri del Nucleo Antisofisticazioni e Sanità e sviluppata dall’aliquota della Polizia di Stato della Sezione di polizia giudiziaria presso la Procura – era partita dal “Refuge Père Laurent” di Aosta, dove risultano deceduti 73 ospiti su 122 (per 36 morti è stata accertata la positività). Il periodo del contagio è stato ricondotto tra il 12 e il 20 marzo dello scorso anno.
Sulla diffusione del contagio nella casa di riposo, di proprietà della Diocesi, secondo gli inquirenti hanno inciso la “presenza di alcuni pazienti (15 su 105) con sintomi Covid non adeguatamente isolati al momento della consumazione dei pasti dagli altri”, la “permissività iniziale di visite dei parenti” (oltre a “una certa indulgenza dimostrata almeno in una occasione in data successiva”) e la “sottovalutazione del rischio di propagazione del virus da parte della direzione”, sfociata ad esempio nell’invito al personale, “in un primo tempo”, ad utilizzare i dispositivi di protezione in modo da “non fare cinema”, al “fine di non far preoccupare parenti/visitatori e utenti”.
Uso non corretto dei dispositivi a Doues
Al “Foyer de vie” di Doues, gestito dall’Unité des communes “Grand Combin”, nel periodo emergenziale sono morti cinque ospiti risultati positivi al nuovo Coronavirus. Dai controlli è emersa una “iniziale difficoltà di approvvigionamento” dei dispositivi protettivi (“i camici venivano utilizzati inizialmente solo in caso di soggetti positivi, in alcuni casi le mascherine ffp2 sono state riutilizzate almeno un’altra volta, dopo averle sanificate con alcool”) e la “non osservanza delle corrette procedure di vestizione/svestizione”. Almeno una Oss sarebbe infatti “entrata in alcune occasioni nelle stanze degli utenti sospetti e in quelle” di “altri utenti senza aver effettuato alcuna previa svestizione”. Quanto all’origine del contagio, “si può solo supporre che sia avvenuto per il tramite del personale operante all’interno della struttura ovvero tramite pazienti positivi asintomatici”.
Al “Cottolengo” è tardata la separazione
La “Piccola casa della Divina Provvidenza Cottolengo” di Saint-Vincent ha visto 14 decessi tra gli ospiti, di cui 10 positivi. I primi sintomi sono stati riscontrati su due utenti il 17 marzo 2020. Dalle investigazioni è emersa una “carenza di personale improvvisa” (le prime defezioni si sono registrate il 9 marzo e hanno riguardato “un totale di 12 dipendenti”). A ciò si affianca il “mancato subitaneo approntamento di spazi separati e luoghi di isolamento dei pazienti positivi” (scattato solo il 20 marzo) e, anche in questo caso, l’approvvigionamento difficile delle protezioni (solo dal 1° aprile è stato consegnato al personale Oss e polivalente un “kit Covid”, mentre dal 19 al 30 marzo la fornitura era solo di due mascherine riutilizzabili).
Antey-Saint-André, il paziente lasciato con un positivo
Relativamente alla “Casa protetta per anziani” di Antey Saint-André, le indagini si sono soffermate sulla morte di un ospite, avvenuta il 1° aprile dell’anno scorso, dopo un repentino e costante peggioramento delle sue condizioni nel giro di 24 ore, iniziato manifestando “temperatura corporea di 37.5°C” e fatica nella deglutizione. Debilitato da diverse patologie, l’uomo – hanno accertato le indagini – era stato lasciato, con una condotta definita dal pm “gravemente colpevole”, in stanza “per due giorni con un paziente di cui era stata da poco accertata la positività” al Covid.
Non essendo tuttavia state accertate le ragioni dell’improvviso declino (la guardia medica intervenuta nella struttura “ne aveva constatato il decesso senza, nondimeno, sapere indicare la causa della morte” e la salma è stata cremata, impedendo la riesumazione), non è però nemmeno possibile dire se “avesse contratto il virus”, visto che l’ultimo tampone effettuato, il 23 marzo, aveva dato esito negativo. L’episodio restituisce, agli occhi della Procura, la “mancata adeguata separazione tra pazienti positivi e negativi” e la “condotta poco professionale del medico della struttura”, che – “secondo quanto riferito dal personale”– in più occasioni “si è reso irreperibile anche nei periodi di reperibiiltà telefonica”.
Gli accertamenti eseguiti non hanno peraltro “consentito di definire chi sia stato il ‘paziente zero’ all’interno della struttura e chi possa avere veicolato il virus tra gli ospiti”. Quattordici, nella Casa protetta di Antey, sono state le morti riscontrate nel periodo dell’emergenza, cinque di positivi al Covid.
Alla “Residenza Dahu” criticità “di estrema gravità”
Venendo, infine, al centro riabilitativo terapeutico “Residenza Dahu” di Brusson, dipendente da una cooperativa sociale con sede in Padova, il pubblico ministero scrive di criticità “emblematiche di un consistente deficit organizzativo-gestionale”, che “appaiono senza dubbio di estrema gravità” e “risultano espressive di una totale inadeguatezza nella gestione della pandemia da parte dei soggetti apicali della struttura”. L’inchiesta si è concentrata sui sei recenti casi di contagio tra gli ospiti, concludendo che le inadempienze riscontrate “risultano ancora più gravi, laddove si consideri che sono state tenute anche a più di un anno di distanza dall’esplosione della pandemia” (il focolaio risale allo scorso marzo).
Il giudizio della Procura è aggravato dal fatto che le criticità, “in alcuni casi, sono ricollegabili a condotte gravemente colpose tenute personalmente dal Direttore sanitario del Centro”. Stando alle indagini, il medico “è stato notato a più riprese con mascherine non adeguatamente indossate” e, “secondo alcune testimonianze, è entrato” nel nucleo Covid “indossando solamente la mascherina chirurgica e portandosi appresso un’altra paziente”. Infine, è stata vagliata la “non corretta gestione del rientro in struttura” di un’ospite “risultata positiva all’esito di un tampone rapido cui si è sottoposta al suo ritorno da un’uscita”, oltre al “non adeguato isolamento del percorso (corridoi) per raggiungere l’area destinata ai pazienti positivi”.
I casi di assenza di irregolarità
Le indagini si sono invece concluse senza ravvisare criticità, e quindi profili di rilevanza penale, per il reparto di psichiatria dell’ospedale di Aosta (dove la corretta divisione degli spazi ha consentito di isolare il solo paziente positivo monitorato, asintomatico all’accesso) e per l’“Istituto Clinico Valle d’Aosta” di Saint-Pierre (ove sono morti, tra il 1° marzo 2020 e il 5 maggio 2021, 25 pazienti 19 dei quali positivi, ma le ispezioni hanno rilevato compartimentazione degli ambienti, dotazione dei dispositivi e formazione del personale conformi alle norme).