‘Ndrangheta, la Cassazione annulla la condanna di Giuseppe Nirta

Secondo i giudici della Suprema corte, se è dimostrata l’appartenenza del 51enne di San Luca alla ‘ndrangheta, non è sufficientemente evidente il suo ruolo nella consorteria piemontese al centro del processo in cui è stato coinvolto.
Cronaca

Dopo l’assoluzione in primo grado, e la condanna in Appello per associazione di tipo mafioso, scaturita dall'Operazione Minotauro per Giuseppe Nirta, il cinquantunenne di San Luca (Reggio Calabria) residente in Valle, scattano l’annullamento della sentenza e il rinvio in secondo grado, per un nuovo processo. Lo ha stabilito la sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza pubblicata oggi e relativa all’udienza tenutasi nello scorso maggio, ma pubblicata solo negli scorsi giorni.

Nirta era stato coinvolto – assieme a numerosi altri imputati – in un maxi-procedimento al Tribunale di Torino, legato a ipotesi di “locali” di ‘ndrangheta in Piemonte, nonché alle contestazioni collegate di estorsione consumata o tentata, detenzione illegale di armi, esercizio abusivo di attività finanziaria, violazioni in materia di stupefacenti e favoreggiamento personale. 

Il primo grado si era concluso con la sentenza del 22 novembre 2013, per cui Nirta era stato assolto. La Corte d’Appello, però, aveva rovesciato tale decisione, condannandolo il 28 maggio 2015 a tre anni ed otto mesi di reclusione, oltre a quattordicimila euro di multa, quale aumento di una pena divenuta irrevocabile nel 1996, inflittagli sempre dalla corte torinese. La sentenza stabiliva, inoltre, a carico dell’uomo, la misura di sicurezza della libertà vigilata.

Contro tale verdetto, tramite i suoi legali, Nirta ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo anzitutto un vizio di motivazione. Secondo i difensori, la sentenza di primo grado era stata rivista in Appello “valorizzando elementi inconsistenti” e, inoltre, “senza farsi carico della necessità di una motivazione rinforzata basata sui medesimi elementi, a fronte dell'analisi compiuta dal primo Giudice”, e “senza considerare che il Nirta non apparteneva ad alcuna ‘locale’ e neppure era stato indicato come referente per le strutture calabresi”. 

Inoltre, nel ricorso veniva sostenuta anche la mancanza di motivazione in ordine all’applicazione della libertà vigilata, giacché – era la tesi sostenuta dai difensori di Nirta – la Corte avrebbe omesso “di accertare l'attualità della pericolosità” dell’uomo.

Secondo i giudici di Cassazione, attraverso dichiarazioni rese durante il procedimento e attraverso le sentenze pronunciate nel tempo a suo carico, è stato “in realtà desunto che il Nirta era 'ndranghetista, dimorava ad Aosta, era stato spesso in carcere ed era attivo nel settore dei traffici di stupefacenti”. Tuttavia, il Tribunale di primo grado ha “escluso che potesse affermarsi la sua appartenenza alla specifica consorteria operante nel Torinese”, da cui la sentenza di assoluzione. La Corte d’Appello “è pervenuta invece alla condanna muovendo da quegli elementi e attribuendo ad essi un significato ulteriore attraverso la valorizzazione di prove diverse, essenzialmente costituite da conversazioni telefoniche”. 

Tuttavia, scrivono i giudici della Suprema Corte, per comprendere meglio la posizione di Nirta, bisogna ricordare che “nella contestazione a lui mossa non si fa riferimento all'appartenenza ad alcuna locale e non si attribuisce un ruolo specifico, ma si indica il Nirta come appartenente alla 'ndrina di San Luca e come attivo a Torino”. Alla prova dell’appartenenza alla ‘ndrangheta avrebbe dovuto quindi affiancarsi “quella dello specifico ruolo dinamico e funzionale stabilmente svolto a vantaggio della consorteria federata operante nel Torinese”.

Per giungere alla condanna, i giudici della Corte d’Appello avevano ravvisato almeno due elementi “individuati in partenza come rappresentativi di concreto svolgimento di un ruolo dinamico nella consorteria”. Per la Cassazione, però, “tale motivazione risulta viziata sul piano della completezza dell’analisi e della logicità delle conclusioni, tratte da premesse in via generale corrette”. 

Non è infatti sufficiente – si legge nella sentenza – rilevare che il Nirta aveva una base ad Aosta per affermare che egli era attivo nell'ambito della consorteria piemontese e specificamente in quella operante nel Torinese, oggetto di contestazione nel presente processo”. Peraltro, “lo specifico luogo nel quale avvenivano i traffici non implica infatti che gli stessi fossero legati alla specifica operatività di quella consorteria e che il ruolo del Nirta fosse ad essa funzionale, non potendosi in alcun modo escludere su tali basi che egli operasse in vista degli interessi della 'ndrina di San Luca di sua provenienza”. Interessi che, però, non erano al centro del processo avviato a Torino, da cui il rinvio alla Corte d’Appello per un nuovo processo a carico del 51enne.

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