Le storie di due ponsammartinesi internati rivivono nella Giornata della Memoria

In occasione della Giornata della Memoria sono state rievocate da due studentesse le storie di due giovani di Pont-Saint-Martin che hanno vissuto la deportazione e la prigionia nei campi di concentramento in Germania: Zita Ghirotti e Eugenio Lizzi, il cui diario è stato digitalizzato.
Zita Ghirotti e Eugenio Lizzi
Cultura, Società

Due volti di giovani sono proiettati sullo schermo dietro a due studentesse. I quattro personaggi sono quasi coetanei, ma la giovinezza dei primi è stata travolta dalla guerra. Sul tavolo è posto un vecchio diario: è quello che Eugenio Lizzi scrisse durante la guerra, a causa della quale è morto. 

“Questo diario ha permesso ai suoi ricordi di sopravvivere, di arrivare a noi. Tra qualche decina di anni sarà nero, non si distinguerà più: adesso noi dobbiamo fare il passo successivo” dichiara Fabio Badery, Vicesindaco e Presidente della Commissione Biblioteca. Il proposito si è già realizzato: il diario è stato digitalizzato con tecniche particolari, in modo da renderlo eterno, trasportabile, facilmente consultabile e fruibile alle scuole e alle nuove generazioni. “La volontà è quella di andare oltre, dare nuova vita al documento e difendere la veridicità delle fonti” spiega Badery “A noi l’onere di portare avanti questi ricordi”. È stata inoltre realizzata una copia del diario da conservare negli archivi della Biblioteca di Pont-Saint-Martin.

Il progetto è stato presentato in occasione della Giornata della Memoria a Pont-Saint-Martin. I protagonisti ricordati durante il corso della serata sono stati i ponsammartinesi Zita Ghirotti e Eugenio Lizzi. Vanessa Lapaglia e Giada Treves, studentesse di quinta del Liceo Economico Sociale di Verrès, con un lavoro di approfondimento hanno ricostruito le loro storie, che hanno esposto e interpretato durante l’incontro. 

Zita Ghirotti, una prigioniera non creduta

La sua sciagura comincia con il bombardamento del paese, a causa del quale perde la madre. Lei, ventunenne, si è salvata per poco grazie al gesto di un panettiere, che l’ha spinta in una cantina. “Lui quando stava per entrare è stato colpito da un masso che lo seccò all’istante” recita Vanessa. 

Dagli scritti del fratello Plinio si è tratta la descrizione che lui ha dato del paese in quel momento: “Vedo una colonna di fumo che si alza. Mi accorgo che il campanile di San Giacomo non c’è più e capisco che la nostra casa è crollata. Tutti erano occupati a cercare di scavare con le mani per cercare di tirare fuori i propri parenti sotto le macerie. Il corpo di nostra madre è venuto fuori dopo otto giorni.”

Accusata ingiustamente di aver collaborato con un partigiano, Zita è stata arrestata dalle Brigate Nere, incarcerata ad Aosta, a Torino, portata con un carro bestiame al campo di transito di Bolzano e successivamente al campo di concentramento tedesco di Ravensbruck. “Ai tempi non si sapeva, nessuno sapeva” aveva detto durante una delle poche interviste che ha rilasciato. Zita, infatti, ha sempre preferito tacere sulla atroce esperienza, per questo le studentesse hanno ricostruito la storia soprattutto attraverso le testimonianze di famigliari o conoscenti.

Una di queste è Ida Desandré, sua compagna nel campo, che testimonia: “Ci facevano fare ore e ore di appello. Ci mettevano fuori nude, incolonnate. Febbre o non febbre. Insomma, conveniva di più andare a lavorare che rimanere”.

“Dio, che freddo!” aveva affermato Zita “Ho conosciuto tante ragazze, alcune che avevano davvero fatto le partigiane, altre prese così, senza ragione. Ma di ebree ne vedevamo sempre di meno, sempre di meno…”.

 “Altre volte ci facevano fare delle visite, con i medici che ci guardavano e ridevano” aveva dichiarato Ida. “Una volta in particolare ci stavano guardando le mani. Io avevo capito: controllavano se avevamo i calli per vedere se farci lavorare. Io ne avevo ed ero tutta contenta, perché magari mi avrebbero portata in un altro posto, lontano da quella lordura e dall’odore di bruciato”.

Inaspettatamente Zita riferisce che “l’umiliazione più grande è stata dopo, tornata in Italia. Noi donne eravamo considerate delle donnacce che erano andate a ‘fare la vita’. Mi dicevano: ‘Ma che bisogno avevi di andare lì?’ Sono dovuta andare alle carceri di Torino per avere dei documenti che accertassero che non ero stata lì per volontà mia”. 

Eugenio Lizzi, ucciso dalle conseguenze dell’orrore del campo

Era ventitreenne quando viene chiamato alle armi e arruolato in Marina. Quando l’Italia si ritira dalla guerra “comincia la triste Odissea” scrive nel suo diario “di me e di altri 500.000 italiani, dei quali 70.000 non faranno più ritorno nelle loro case”.

Da Pola, in Istria, dove si trovava, viene portato in un campo di prigionia in Germania, dove per 13 ore al giorno era costretto ai lavori forzati a 70 km da terra. Eugenio ha dettagliatamente documentato questo viaggio con le parole. “Ci hanno dato della minestra di orzo che sapeva di sapone, ma con la fame passa tutto” legge Giada “Durante la notte quella specie di minestra ha fatto effetto e a tutti ci ha provocato dei dolori viscerali con la rispettiva diarrea. Ora lascio a voi immaginare quale disastro nel carrozzone… Si fa turno per rimanere vicino al finestrino. A un maresciallo di marina, che aveva tardato a salire per una ferita alla gamba, hanno sparato a bruciapelo, lasciandolo lì tra i binari.”

Oltre alla cronaca del viaggio, Eugenio ha testimoniato la sua vita nel campo e ha completato il diario mentre aspettava il rientro in Patria presso gli americani che avevano liberato il campo.
Purtroppo la liberazione non raggiunge il lieto fine: la sua salute è stata sciupata dal lavoro, dal cibo insufficiente, dal freddo e dalle violenze. Si ammala di una grave forma di tubercolosi e muore. 

 

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