È una Sicilia luminosa e inquieta, quella che ieri sera ha fatto capolino al Teatro Splendor di Aosta, portando con sé storia e quotidianità, mito e mistero, racconti fantastici, delizie e tesori che attraverso la musica, dal palco, sono arrivati dritti in platea. Prima una lunga immersione dentro l’ultima fatica, “Amuri luci”, poi il ritorno alle canzoni che hanno fatto la storia di Carmen Consoli: la Cantantessa, assente dalla Valle d’Aosta dal giugno 2022, ha ritrovato il suo pubblico con un concerto costruito come un viaggio di andata e ritorno tra radici e memoria.
Il prologo di PUGNI
Poco dopo le 20.30 a rompere il ghiaccio è Lorenzo Pagni, in arte PUGNI. Solo chitarra e voce, quattro brani appena e un’intensità che costringe il pubblico ad ascoltare in silenzio. Sul brano “Foglie morte” succede persino l’impensabile per Aosta: la sala canta il ritornello, timida all’inizio, poi sempre più sicura. In meno di venti minuti il cantautore riesce a farsi conoscere e soprattutto ricordare.

“Amuri luci”, un viaggio dentro la Sicilia
Alle 20.55 le luci si abbassano di nuovo, il palco viene nascosto da un velo e un video ricorda la figura di Peppino Impastato, a cui è dedicata l’apertura del concerto. La voce registrata lascia spazio a “Amuri luci”, primo brano e dichiarazione d’intenti: la voce di Consoli (in giallo, per l’occasione) entra poderosissima, fa vibrare il teatro e mette subito a fuoco il cuore di questo tour.
Il primo set, circa 45 minuti, è interamente cantato in siciliano e segue la trama dell’ultimo album, nato da un lavoro di ricerca sulle radici storiche e culturali della sua terra. La Cantantessa attraversa secoli di dominazioni, da quelle arabe alle greche, dalle romane alle normanne, raccontando una terra fatta di lingue sovrapposte, ferite e mescolanze. Tra un brano e l’altro scorrono i rimandi a poeti e scrittori come Nina da Messina, Ignazio Buttitta, Graziosa Casella, Ibn Hamdis, Teocrito, evocati nelle immagini e nelle atmosfere più che in lunghe spiegazioni.
Il suono è caldo, con strumenti che richiamano il canto popolare locale: percussioni secche, corde, fiati che colorano arrangiamenti lontani da qualunque logica radiofonica. Il disco, pensato come primo capitolo di una trilogia, qui diventa performance teatrale, con le canzoni che si legano grazie alle proiezioni sui veli lasciati aperti ai lati del palco.

In “La terra di Hamdis” la voce di Mahmood arriva registrata mentre il suo volto appare sui teli: il duetto è a distanza ma l’effetto è scenico, quasi cinematografico. Le quinte diventano schermi su cui scorrono mare, volti, feste, ma anche fucili e soldati, a ricordare che la storia dell’isola è fatta di bellezza e violenza.
Con “Galateia” il mare del sud sembra davvero entrare nel teatro del nord: onde, barche, corpi che ballano, una Sicilia che non è cartolina ma movimento continuo. In “Parru cu tia” le immagini cambiano registro, scorrono manifestazioni per la pace, dal passato fino ai giorni nostri, con riferimenti alla Palestina. Sui teli spunta Jovanotti, ancora una volta in video: il duetto è virtuale, Consoli resta in silenzio tra un brano e l’altro, lasciando che a parlare siano musica e immagini.
In “Comu veni veni” sulle quinte si accendono l’Etna, la lava, il fuoco, un omaggio al vulcano che domina la sua casa sull’isola. “Qual sete voi?” porta in scena una Sicilia più interiore, quasi una domanda rivolta direttamente al pubblico. Il primo atto si chiude con “Nimici di l’arma mia”, che alza ancora la tensione emotiva prima della pausa.

Il cambio di scena: dal siciliano ai classici
Quindici minuti di intervallo, cambio d’abito – ora scuro – e cambio di set. Le quinte si aprono, strumenti e arrangiamenti cambiano anch’essi veste, mentre la dimensione si sposta su un terreno più rock. L’attacco del secondo atto è affidato a “Questa notte una lucciola illumina la mia finestra”, che accende subito la platea.
Su “AAA cercasi” Carmen rompe finalmente il silenzio e si rivolge al pubblico: “Com’è andata con il siciliano?”. La risposta è un applauso lungo, che certifica la partecipazione di una sala attenta anche nella parte più sperimentale.
Nella parte centrale del set scorrono “Ottobre”, “Qualcosa di me che non ti aspetti”, “Autunno dolciastro”: brani che raccontano relazioni, fragilità, nostalgie quotidiane. Consoli presenta poi “Imparare dagli alberi a camminare”, scritta durante il periodo del Covid, tra un lockdown e l’altro, mentre cercava un equilibrio tra la gestione del figlio e l’assurdità di quei mesi. La racconta con tono lieve, come se volesse sdrammatizzare un ricordo ancora vicino. Subito dopo arriva “Sintonia imperfetta”, che completa questo blocco più intimo.

La rarità del 1996 e il lungo finale
C’è spazio anche per un salto agli esordi: dal 1996, anno del primo album “Due Parole”, riemergono “Lo stonato” – prima di questo tour non era mai stata eseguita dal vivo, spiega Carmen Consoli – e “Sulla mia pelle”, brano invece iconico e immancabile nelle performance live della Cantantessa.
Con “Bonsai #2” la sala si scalda di nuovo, intonando il controcanto quasi all’unisono. È il preludio al trittico che molti aspettano: “L’ultimo bacio”, “Parole di burro” e “In bianco e nero”, eseguite da sola sul palco, chitarra e voce. Nella spogliazione degli arrangiamenti questi brani rivelano ancora di più la loro struttura precisa, le melodie che restano in testa, la forza di un repertorio ormai classico.
Il set principale si chiude con “Orfeo” e “Amore di plastica”, che riportano il suono della band al completo e il pubblico a cantare. Poi l’uscita, il buio, la richiesta dei bis che arriva compatta dalla platea con un lunghissimo battimano.

Nei Bis si ritorna al dialetto
Consoli torna sul palco e regala “Blunotte”, che il pubblico accoglie in religioso silenzio, mentre la chiusura è affidata a “’A finestra”, un ritorno al siciliano che ricuce il filo con l’inizio della serata. Le luci si accendono, il teatro si alza in piedi per una standing ovation lunga, rispettosa, che la Cantantessa accoglie con un inchino presentando la band. Il viaggio al Teatro Splendor finisce così, con l’impressione di aver attraversato un ponte che virtualmente ha unito, almeno per una sera, la Valle d’Aosta alle pendici dell’Etna.
