“La Valle d’Aosta somiglia a Rocco. La montagna qui è severa, alta, ti avverte che non c’è da scherzare. E’ un posto che, di primo acchito, può non sembrare accogliente. Poi, frequentandolo, ti accorgi che lo è. Scopri i gioielli. Rocco, di primo acchito, non è accogliente, ma frequentandolo scopri che ha un cuore. Quindi ho scoperto che lo avevo messo al posto giusto, ma eravamo dopo il terzo libro”.
L’ultima volta dello scrittore Antonio Manzini nella nostra regione era stata nell’ottobre 2018 (che per quanto significhi meno di tre anni sembra un’era geologica fa) e il ritorno di ieri, domenica 8 agosto, per battere il “calcio d’inizio” della rassegna “Forte di Bard incontri”, è partito proprio dal rapporto del suo personaggio di maggior successo, il Vicequestore Schiavone, con la terra di montagna in cui è stato spedito.
Rocco in Valle, perché?
“Perché la Valle d’Aosta? – ha spiegato, rispondendo alle domande di Elena Pollacino, in un dialogo ‘senza filtro’ durato circa un’ora e mezza – Sono tanti anni che ci vengo e la conoscevo. Avevo bisogno di un posto diverso da Roma. Ho pensato a questo personaggio che, nato a Trastevere, aveva fatto forse 200 metri per arrivare a Monte Mario. E ho pensato che sbatterlo quassù fosse divertente”.
Schiavone in tv? “Mi interessano i libri”
Dopodiché, la serata ha virato sulla dimensione televisiva assunta dal vicequestore Schiavone, con il successo della fiction in cui a interpretarlo è Marco Giallini. Quanto può influire, una risonanza del genere, sulla creatività di uno scrittore? “Sarò onesto – è stato perentorio Manzini – A me della fiction non frega niente. Mi interessano i libri. Il lettore ti sceglie, la fiction è incidentale”.
Il fatto è che “il lettore spende dei soldi e compra il libro. La tv è fatta di gente che la accende e la guarda per caso”. Anche se gli attori della fiction, specie per i personaggi minori, sono una preziosa memoria storica, “tranne Giallini, che non si ricorda un c…”. Poi, però, “ti chiamano per sapere cosa succede nel prossimo libro”, con risvolti anche surreali.
“I maschi, – ha aggiunto divertito lo scrittore – chiamano per sapere se nel capitolo successivo scopano. Ora, finché lo chiede l’interprete di Scipioni, è anche un bel ragazzo, ma se te lo chiede Casella… Le donne, invece, sono un po’ più sottili”. Comunque, “la fiction è analfabetismo emotivo, scrivo pensando ai libri, ai lettori, a Rocco Schiavone, a quella che è la sua fisicità”.
Un passaggio che ha riportato in auge un tema spesso dibattuto sui social: “Aosta non la conoscono tutti, ma tutti sanno cos’è la montagna. Non hai bisogno di descrivere il Cervino al tramonto. Aosta non è quella che io descrivo. Tantomeno quella che si vede nella fiction, che io ho fortemente voluto (Manzini è sceneggiatore, ndr.). E’ blu. Aosta non è blu”.
“Vecchie conoscenze”, il giallo in rilievo
“Vecchie conoscenze”, l’ultimo volume della serie, uscito da poco, benché fosse il tema di lancio della serata in realtà non si è affacciato più di tanto alla conversazione. Se non per constatare, come non ha mancato di fare la dialoghista Pollacino, che “in questo libro, tanti punti si chiudono”. Un segnale che la “serialità” della storia del vicequestore esiliato tra i monti del nord-ovest si stia affievolendo?
“Non lo so. – ha sospirato Manzini – Il ‘punto a capo’ è sempre sconvolgente. Però, penso che faccia parte della vita di ognuno: per una perdita di qualcuno, per un cambio di città. Eppure vai avanti, magari con il dolore, o con energia ritrovata in altri casi. Ecco, anche Rocco va avanti”. Certo, è un personaggio “molto irritante”, tanto che “avere uno così accanto non lo auguro a nessuno”.
Sinceramente, si è interrogato l’autore a voce alta, “non so perché continuo a mettere delle donne che anelano di stare con lui”. Alla fine, “Rocco è basico” e “ha scelto di esserlo, anche in maniera un po’ vigliacca. Si nasconde dietro Marina”. La trama gialla, nell’ultimo lavoro firmato Manzini, sembra più in rilievo che in passato, ma la ricetta non è cambiata: “le invento”.
“Bisogna sorridere e avere distacco”
“Di solito, mentre sono in macchina. – ha raccontato lo scrittore – La prima mi venne in mente a Champoluc. Ero con il gatto delle nevi, con mia sorella, stavamo tornando al rifugio in quota. Ti vengono così”. Sul modo di affrontare il lavoro, “detesto gli scrittori che ‘devo trovare l’ispirazione’. No, devi metterti a lavorare”.
“Molti narratori si prendono troppo sul serio. – ha osservato Antonio Manzini – Bisogna sorridere e avere sempre un po’ di distacco, da quello che scrivi e da quello che sei”, ma troppi “si sentono salvatori del mondo, però non vedo Céline, né Dostoevsij, nemmeno Maupassant”. Peraltro, ora che non abita più a Roma, lo scrittore ha un rapporto difficile con la città eterna, giacché la trova “diventata cattiva, arrabbiata”.
Roma, ormai “cattiva e arrabbiata”
“Farei una class action per spostare la capitale a Torino”, ha sorriso. “Così, Roma rimarrebbe quello che è, una città d’arte, turistica. E tante schifezze dei salotti romani, che si sono magnati ‘sto Paese, verrebbero meno”. La domanda di uno spettatore ha poi evocato le recenti vicende giudiziarie sull’infiltrazione di ‘ndrangheta in Valle d’Aosta, chiedendo se potrebbero essere uno sviluppo possibile per il futuro delle investigazioni di Schiavone.
La mafia? “Mi fa schifo anche parlarne”
“Ho un problema con la criminalità organizzata. Mi fa schifo anche parlarne. – è stata la risposta lapidaria – Conoscendo gente che è stata ammazzata, io non vorrei dare niente a questa merda. E’ uno dei cancri di questo Paese. Quando un amico giornalista viene sparato, come fai a parlare di queste persone? ‘Gomorra’ io lo trovo agghiacciante. A meno che mi fai ‘Il Padrino’, per spiegarmi antropologicamente delle cose”.
E comunque, “la ‘ndrangheta non ha bisogno di quelli che baciano i santini. E’ nella testa delle persone. Cercare sempre i favori è mafia. Siamo deboli di fronte a tutto questo. Quando ho scritto dei servizi segreti deviati ha fatto ridere, ma non è cambiato molto dai tempi della loggia P2 in questo Paese. E’ un Paese duro questo”. Dopodiché, il “papà” di Schiavone si è concesso all’abituale bagno di folla dei suoi lettori, perché in fondo – a maggior ragione dopo dieci libri – Rocco e la Valle hanno capito di somigliarsi più di quanto sembri.