Si scrive Napoli, si legge mondo: Renzo Arbore incanta Aosta

Tre ore filate di concerto con l'Orchestra Italiana. Entusiasmanti e piacevoli come una serata a guardare vecchie fotografie tra amici. Per ognuna, l'omaggio a un nome o un genere che hanno marcato la storia della canzone italiana.
Renzo Arbore ad Aosta.
Cultura

Se il “Made in Italy” è definito mondialmente nella sartoria da Firenze, per la musica è Napoli a fare da insegna del Belpaese. Una convinzione instillata nei valdostani lo scorso novembre dal concerto di Edoardo Bennato nella “Saison” e cristallizzata definitivamente, nella serata di ieri, venerdì 2 agosto, da quello di Renzo Arbore in “Aosta Classica”, accompagnato al Teatro Romano dai quindici elementi, uno più virtuoso dell’altro, dell’Orchestra Italiana.

Tre ore filate, malgrado gli 82 anni dello showman, traditi solo da un maglioncino leggermente più pesante del necessario, trascorse entusiasmanti e piacevoli come una serata a guardare vecchie fotografie tra amici di una vita. In ogni immagine, un nome o un genere che hanno marcato indelebilmente la storia della canzone italiana, cui la banda sul palco ha reso convinto omaggio. Perché Arbore è anzitutto un esegeta, un Piero Angela delle sette note: sa dove va, ma soprattutto da dove arriva.

Così, il sipario (metaforico, per quanto evocato più volte dai musicisti) si alza su “Reginella” di Roberto Murolo. Poi è la volta di Renato Carosone ed appare chiaro a tutti che, pur trattandosi del calcio d’inizio del tour estivo dell’Orchestra, le voci soliste chiamate ad alternarsi al frontman, quelle di Barbara Bonaiuti e di Gianni Conte, sono tutt’altro che ancora ai box. Il secondo, in particolare, regala una “Nessun Dorma” fuori programma da brivido.

Ma se “Napule è mille culure”, come ha insegnato un altro indimenticabile alunno di quella scuola, non può esistere convivio tra sodali senza evocare quelli che purtroppo non ci sono più, anche se non hanno imbracciato uno strumento. Ed è ai limiti della commozione, Arbore, nell’affettuoso ricordo a Luciano De Crescenzo, scomparso da poco, che “ha rappresentato non la Napoli delle stagioni, ma (con i suoi film e libri) la Napoli di sempre, della bellezza, della natura e del sorriso”.

L’applauso del Teatro Romano (“bellissimo, l’ho visitato tutto oggi pomeriggio) è scrosciante. Lo stesso accade quando il volto di Totò riempie lo schermo alle spalle del gruppo su “Malafemmena” e, poco dopo, anche Mimmo Modugno viene salutato con calore. Da lì, incantati i presenti, il motore dell’Orchestra Italiana ha raggiunto la coppia dei giri ed è impossibile rallentare. Dopo una parentesi in cui l’uomo dal cappello a tesa larga si sposta al pianoforte (oltre a chitarra e clarinetto), e l’assolo swing su “Mamma mi piace il ritmo” ricorda una radio dei giorni della Liberazione, via libera alle tarantelle.

Il micidiale uno-due fa balzare in piedi anche gli spettatori più glaciali: “Come facette mammeta” e “Catarì”, con le ultime inibizioni di staticità degli astanti perse definitivamente su “O’ Surdato ‘nnamurato”. Il prezzo del biglietto sarebbe ampiamente recuperato, ma Arbore – dagli interventi istrionici tra un brano e l’altro, che ricordano perché sia considerato il primo dj italiano – non ne ha proprio basta e, per i fuochi d’artificio finali, pesca dal repertorio della sua parentesi televisiva di maggior popolarità, tra metà e fine anni ottanta.

“Vengo dopo il tg”, ricamo di doppi sensi dell’uomo che “non sarò normale, dipendo dal canale”, accende contagiosi focolai di entusiasmo, ma è su “Cacao Meravigliao”, altro inno della stagione sul piccolo schermo (“Indietro tutta”), che l’atmosfera è ormai quella di una gigantesca festa, ritornello cantato a squarciagola da chiunque e c’è mancato un niente al partire del trenino. Nel turbinoso jam verso il finale, che ha visto anche eseguire “Luna Rossa” a grande richiesta della platea, sono spuntati pure, per non farsi mancar nulla, reggae e afro-pop. Si scrive Napoli, si legge mondo.

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