“Purtroppo, al momento, tutto è incerto”. L’argomento è l’apertura degli impianti di sci nella stagione invernale (che, gli scorsi anni, vedeva in questo periodo alcune stazioni della Valle già aperte) e a parlare è Josianne Navillod, giovane maestra di snowboard di Antey-Saint-André, attiva sulle nevi di Cervinia. Il governo italiano, nell’ultima settimana, è stato esplicito sulla volontà di inibire lo sci nel periodo natalizio e, sotto la curva dei contagi da Covid-19, Francia e Germania, per bocca degli esponenti dei rispettivi esecutivi, viaggiano spedite verso la stessa conclusione.
Per i professionisti della neve nostrani, 15mila in tutta Italia (con 380 scuole di sci attive sul territorio nazionale), abituati a gestire la loro vita sulla base di sei mesi di lavoro stagionale, all’orizzonte c’è il periodo più difficile di sempre. “Ad ottobre non si facevano molte ore – spiega la nostra interlocutrice – ma si lavorava nei week-end, poi si entrava nel vivo dal ponte dell’Immacolata”. Introiti che, per quest’anno, i maestri hanno già salutato, ma il futuro non li trova più speranzosi.
“Anche se si dovesse aprire a gennaio, – aggiunge Navillod – chissà cosa si potrebbe fare, considerato peraltro che ci rivolgiamo ad una clientela di fascia alta e, in particolare nello snowboard, a turisti stranieri, come brasiliani e israeliani, che, quest’anno, difficilmente ci saranno”. Una prospettiva resa ancora più tetra, nel caso di Josianne, dal fatto che il reddito familiare dipende integralmente dalla neve: il marito è infatti un collega, direttore della scuola di sci. “Il problema è che nelle vallate – aggiunge – intere famiglie sono legate al turismo, chi con un negozio, chi con un ‘bed and breakfast’”.
Ed è su questo punto che la posta in gioco assume proporzioni diverse dal semplice bloccare, o consentire, un’attività di fruizione della montagna. La pandemia (che la maestra non si sente nemmeno lontanamente di negare, perché “è mondiale” e “non penso che le decisioni vengano assunte a cuor leggero”) “mi ha aperto gli occhi”, sicché “facendo lo stesso lavoro siamo anche arrivati a pensare che uno dei due dovesse cambiare professione”. Tuttavia, “anche avendo svolto altre attività”, e pur “avendo un titolo di studio, chi ti assume in questo momento”, in una regione ove ciò che non è pubblico, è turistico?
Una condizione, oltretutto, ampiamente condivisa (“la maggior parte delle persone che conosco sono nella stessa situazione”) e ad aggravarla c’è la sensazione che i giorni passano e “non si sa cosa accadrà”. Inoltre, la sensazione di “pesi e misure” diversi, nelle decisioni attese, è quantomeno fastidiosa. “Quest’estate – sottolinea Josianne Navillod – il mare non è stato superfluo e io stessa ho speso volentieri i miei soldi, andando in una località italiana, per dare un contributo. Ecco, per noi, per il mondo dello sci, dovrebbe poter essere lo stesso”.
Mostrando un’attitudine non scontata per categorie professionali in difficoltà, Josianne non parla, per tutta la nostra conversazione, di ristori o indennizzi. Spiega che, con il primo ‘lockdown’, “nonostante gli ultimi due mesi mancanti, so che Cervinia ha chiuso in attivo, ma per questa stagione”, ormai dimezzata sulla carta, “chissà” (il raggiungimento del punto di profitto, con le stagioni a ranghi ridotti, è peraltro il vero nocciolo della questione). Sul piano individuale, “da soli si potrebbero fare scelte anche estreme”, come cambiare orizzonte, “ma avendo una famiglia (il loro nucleo si completa con due bambini, di 5 e 7 anni) tutto cambia”.
Lavorare per soli sei mesi, “nei quali non puoi permetterti di stare male, perché ogni giorno è utile” e quindi “non ci si ferma mai”, è complicato, ma rappresenta anche una condizione fortunata, perché “è un bel lavoro, sei all’aperto, ogni giorno ti confronti con persone diverse”. Inoltre, finita la stagione, c’era anche l’abitudine di “passare del tempo sulla neve tutti assieme, di riposarsi”. Cosa sarà di tutto questo, per ora Josianne e i suoi colleghi lo immaginano soltanto. Non sono degli sprovveduti, il virus li spaventa quanto le altre persone e pure altre variabili della partita (come i traumatismi derivanti dall’attività sciistica, che metterebbero ulteriore pressione sulle strutture sanitarie) gli sono chiare: “io stessa ho accompagnato clienti in pronto soccorso, in passato”.
Aspettano però legittimamente delle risposte, ma chissà se chi le sta elaborando ha totalmente chiari i termini del problema, o lontani dalle cime e dalle piste è molto più facile fermarsi alle foto della calca agli impianti circolate sui social. In tutto questo, “spero almeno nevichi, così da poter andare vicino casa con i bimbi con il bob e fare qualcosa”. Ecco, di questo si tratta, in fondo: garantire un futuro. E, a guardarla dai piedi delle montagne, sembra tutt’altro che una pretesa fuori luogo.
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Ma che razza di commento è? Ma glieli paghi tu colazione, pranzo e cena quando queste famiglie non avranno di che campare? Ma per favore, scriviamo quanto meno qualcosa di furbo, se vogliamo scrivere qualcosa!
Le consiglierei due esperienze formative: leggere l’articolo di Messner pubblicato ieri sui quotidiani e farsi un giro in un reparto Covid+.
Ricordandole inoltre che i nostri figli hanno già perso quattro mesi di scuola in primavera e quasi due ora,le auguro buon inverno.