La conquista dell’Everest 50 anni dopo: gli alpini ricordano l’impresa

Gli alpini del Gruppo di Châtillon-Saint Vincent e del Gruppo Beauregard Smalp, hanno organizzato una commemorazione delle gesta delle 2143 persone coinvolte nell’impresa.
Cinquantanni dalla conquista dellEverest
Montagna

A quasi cinquant’anni dalla prima spedizione italiana che conquistò la vetta dell’Everest gli alpini del Gruppo di Chatillon-Saint Vincent e del Gruppo Beauregard Smalp, hanno organizzato oggi, sabato 29 aprile, presso il Centro Congressi di Saint Vincent una commemorazione delle gesta delle 2.143 persone coinvolte nell’impresa.

 

La commemorazione

Dopo un minuto di silenzio dedicato a chi non arrivò mai a concludere la spedizione, a fare gli onori di casa è stato Gianfranco Baudone, consigliere della sezione valdostana ANA, che ha introdotto il tema con un elogio ai partecipanti dell’impresa: “Gli alpini hanno nel DNA il culto del ricordo, non solamente nei fatti d’arma ma anche nelle imprese sportive, e la vostra è stata un’impresa eroica, perché in quegli anni salire sulla vetta del mondo non era un’impresa così semplice.” All’intervento del consigliere, sono seguiti quelli del sindaco di Saint Vincent Francesco Favre, del colonnello Giovanni Santo e dei capi gruppo Pier Giorgio Salico e Valter Caverini. Successivamente, è stato proposto alla platea il documentario “Spedizione Italiana Everest 1973” di Gianfranco Ialongo. A chiudere la celebrazione e a fornire uno spaccato della lunga scalata, sono state le testimonianze di alcuni partecipanti all’impresa, quali Rinaldo Carrel, Aldo Leviti, Ivo Nemela, Virginio Epis e Giuseppe Miserocchi.

La spedizione

Finanziata dall’alpinista e imprenditore Guido Monzino, la conquista dell’Everest non coinvolse solo alpinisti di estrazione militare.  Infatti, per la prima volta, ad una spedizione diretta sulla cima dell’Everest partecipò anche un gruppo di medici, interessati a studiare il funzionamento del corpo umano ad alta quota. “Tutti gli studi iniziati lì sono poi proseguiti negli anni, in altre sedi” ha affermato Giuseppe Miserocchi, uno dei fisiologi della spedizione. Ma il lavoro dei medici della spedizione, non si limitò solo alla ricerca scientifica: “uno degli elicotteri cadde in prossimità del campo tre, il pilota non si fece nulla, il meccanico invece si lussò la spalla. Aiutarlo non fu cosa facile, ma fui aiutato dalla grande pazienza e tolleranza al dolore del meccanico stesso, che così riuscì a rientrare autonomamente al campo base” ha proseguito Miserocchi. Per l’impresa furono movimentati più di duemila portatori, trecento yak, cinquantatré militari, dieci civili e ottanta sherpa, “Fu una delle ultime spedizioni pesanti – ha precisato Gianfranco Ialongo- da lì in poi le spedizioni iniziarono ad essere composte da pochissime persone.”

Le testimonianze

Un’impresa di questa entità, richiese una pianificazione logistica all’avanguardia, aspetto di cui ha parlato approfonditamente Rinaldo Carrel, uno dei cinque alpinisti della spedizione ad aver raggiunto la vetta tra il 5 e il 7 maggio 1973: “L’Everest, ovviamente, non era lo stesso che si può trovare adesso, eravamo soli su quella montagna, il fascino che ne nasceva era immenso, abbiamo dovuto attrezzare tutto per poter salire, le sessanta persone coinvolte nella spedizione dovevano mangiare tutti i giorni. Non potevamo comprare il cibo a Katmandu, perché ce n’era già poco per i locali, ecco perché i grandi rifornimenti dovevano arrivare da fuori. I grandi alpinisti non erano tanto italiani o valdostani ma venivano soprattutto dall’estero, come dall’Inghilterra e le uniche guide che avevamo a disposizione erano gli sherpa. Tutto si è evoluto ed è andato avanti, nel bene e nel male.”

Non tutti gli alpinisti coinvolti riuscirono a coronare il sogno di salire fino alla vetta dell’Everest. Alcuni, come Aldo Leviti, decisero comunque di ritagliarsi una soddisfazione per sfruttare al meglio l’occasione offerta loro: “Ero stato destinato al campo 2, a 6500 metri, dove sono rimasto un mese. Mi ricordo che quando avevamo capito che per noi, chance di salire in cima non ce n’erano più, io e Ivo Nemela abbiamo pensato ‘proviamo ad andare un po’ più avanti’. Così una notte ci siamo imbardati e dal campo 2 siamo saliti al campo quattro e siamo tornati giù.”

Al di là della possibilità o meno di raggiungere la cima, ciò che più è rimasto impresso agli scalatori coinvolti nell’impresa, sono state le immagini estrapolate nel corso dell’esperienza: “Quello che mi è rimasto negli occhi e nel cuore, oltre alle persone, sono state le immagini, è una montagna tutta coperta dal ghiaccio, i colori passavano dal rosa all’azzurro. Non puoi rimanere indifferente dalla serraccata iniziale, io non ho mai visto serracchi alti come un palazzo e mi sono chiesto come saremmo riusciti a superarli” ha dichiarato Ivo Nemela.

Le note dolenti relative alla conquista della vetta e alla relativa discesa sono state narrate  da Virginio Epis, uno degli alpinisti italiani facenti parte della seconda cordata inviata a concludere la spedizione, resosi protagonista di un eroico salvataggio di due dei suoi compagni di viaggio, Claudio Benedetti e lo sherpa Sonam. “Mi sono trovato in una situazione che non avrei mai pensato. Mi sono visto due persone a 8800 metri riverse sulla neve e ho pensato ‘e adesso cosa faccio?. L’unica cosa che ho pensato è stata che dovevo riuscire a portare un po’ di ossigeno a quei due. Infatti, sono sceso sull’anticima, dove c’erano gli avanzi della mia bombola e di quella dei miei compagni, e in due viaggi sono riuscito a portarli ai due. Il tempo era cambiato, bufera, buio, freddo e bisognava ancora salire. In qualche modo sono riuscito a smontare e rimettere in funzione le valvole per la maschera e piano piano sono riusciti a rimettersi in piedi. Intanto è venuta la notte ed eravamo ancora sopra gli 8000 metri. Grazie ad alcune foto che avevo fatto in precedenza, mi sono ricordato i particolari per poter arrivare alle tendine che avevamo piantato a 8500 m. Ormai però era notte, neanche io avevo più le energie iniziali. Così abbiamo passato alcune ore al coperto a cercare di scendere in qualche modo. Nonostante tutto siamo riusciti a tornare, per me le esperienze più belle, o più brutte sono arrivate quando era l’ora di tornare a casa. Non so chi mi ha aiutato ma in quell’occasione ce l’abbiamo fatta.”

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